venerdì 19 novembre 2010

fermate il DdL Gelmini – L’alternativa politica riparta dalla questione dei saperi

Appello all’opposizione parlamentare: fermate il DdL Gelmini – L’alternativa politica riparta dalla questione dei saperi

di Anna Carola Freschi, mercoledì 17 novembre 2010,


Nel 2005 il movimento dei precari contro la Moratti, nel 2008 l’Onda degli studenti, quest’anno (finalmente!) il movimento dei ricercatori ‘strutturati’. Sono questi i movimenti che negli ultimi anni hanno illuminato la realtà, spesso inquietante, del lavoro nell’Università italiana. Che in Italia la ricerca e i ricercatori siano drammaticamente sotto-finanziati rispetto ai paesi OCSE è una cosa grave che però, tante le volte che è stato detto e ridetto, non fa più notizia.

Ciò che la protesta dei ricercatori ha messo in luce, e che da ora in avanti non potrà più essere taciuto, è che l’offerta formativa delle università italiana si è retta in questi anni in grandissima parte (oltre un terzo) sul lavoro di una massa di ricercatori, strutturati (24.000) e non strutturati (si parla di almeno 40.000 persone tra i 30 e i 40 anni). Lavoro spesso gratuito o pagato simbolicamente; spesso reso ‘obbligatorio’ da regolamenti locali in palese contrasto con la normativa nazionale (W l’autonomia!). In pratica, con la scusa dell’autonomia, si è nei fatti creato un sistema di arbitrio feudale nella gestione del lavoro accademico.

Sono stati i 10.000 (www.rete29aprile.it) ricercatori strutturati italiani (quasi la metà del personale in questo ruolo) che quest’anno hanno dichiarato di essere indisponibili a svolgere compiti didattici non previsti dalla legge a squarciare il velo dell’ipocrisia che regna, a più livelli, nell’accademia italiana. Corsi di laurea importanti sono stati spazzati via dalla protesta o ‘aggiustati’ alla bell’e meglio, perdendo la loro fisionomia e la loro coerenza. Questa decisione, non di scioperare ma di avvalersi di un diritto, ha quindi prodotto una forte lacerazione dentro le università, ha provocato in non pochi casi le reazioni dei vertici accademici, portandoli ad esercitare pressioni indebite sui ricercatori perché, zitti e buoni, tornassero in aula o adottassero forme di protesta compatibili con il funzionamento delle facoltà. Insomma, la protesta potete dichiararla, anzi siamo tutti con voi! Quanto al ‘farla’, pensateci bene. Addirittura si è detto alle ricercatrici ed ai ricercatori indisponibili di tornare in aula per senso di responsabilità verso gli studenti e verso la Facoltà (“le matricole scappano negli atenei vicini, facciamo il gioco della concorrenza!”). Ma quale studente vorrebbe che i propri genitori andassero al lavoro, fossero minacciati di ritorsioni sulla carriera se non accettano di fare di più di quel che devono? Quali vorrebbero che i loro genitori, ne bel mezzo di un pesante taglio stipendiale, svolgessero mansioni per cui non sono pagati e non hanno un riconoscimento? Oppure l’idea è che i giovani si debbano adattare a questa idea generale, a partire dalle loro madri, dai loro padri, da loro stessi, ‘fabbricati’ per il precariato in un paese che ha perso la sua dignità? Quali studenti vorrebbero istituzioni pubbliche, le università appunto, che agiscono ai margini della legalità o che la violano esplicitamente? E’ anche su questi aspetti che si decide se proiettare il Paese nel futuro o sprofondarlo nel passato (feudale).

Son ben poche le università in cui la protesta dei ricercatori strutturati non ha attecchito. Nelle sedi storiche, più importanti, in quelle delle grandi città, la protesta ha coinvolto l’intero mondo universitario, in particolare studenti, precari, ma anche associati, ordinari, amministrativi, qualche rettore ‘dissidente’ rispetto ai canoni CRUI, personalità del mondo della cultura, in una reazione corale contro un progetto che vorrebbe l’università fortemente ridimensionata, svilita nelle proprie funzioni pubbliche, privata di strumenti di autogoverno che possano dirsi tali, assoggettata a ‘manager’ (le virgolette sono dovute) secondo il triste modello invalso nella sanità pubblica. Una università in cui, spazzata via la figura del ricercatore a tempo indeterminato, la prima fase della carriera scientifica – già oggi per molti interminabile – si svolge interamente sotto i vincoli della precarietà. Una università in cui il diritto allo studio è stato geneticamente mutato in accesso agevolato al debito: dove quindi gli studenti meritevoli ‘ma privi di mezzi’ saranno costretti a cedere il quinto dello stipendio prima di averne (chissà quando) uno. Una università in cui tutto il potere è concentrato nelle stesse irresponsabili mani che l’hanno gestita finora.

E’ sempre più chiaro che questa riforma è contro l’università pubblica, contro chi ne vuole il rilancio e la trasformazione in senso progressista. E’ una università che non sa niente delle condizioni sociali e culturali per produrre innovazione e cultura, è una università intrinsecamente diseducativa. Del tutto irrisorio il fatto che Tremonti rimetta sul piatto le stesse risorse che poco prima ha tolto, dando ulteriore prova di essere un maestro della finanza creativa. Risorse insufficienti ad affrontare i problemi dell’università, che invece proprio la crisi economica, culturale e morale del paese richiederebbero di affrontare con decisione. Crisi, beninteso, di cui questa università malata, da cambiare, prodotta da un lungo periodo di profonda incuria e scorribande riformatrici, è un pezzo emblematico.

Se è vero che il paese ha bisogno di un forte ricambio generazionale e culturale, di un cambio di prospettiva e di passo, questo non può che cominciare dalla valorizzazione della scuola, della formazione, della ricerca e non può che ascoltare la voce di coloro che con la mobilitazione diretta, nelle scuole, nelle piazze, nelle fabbriche, sui tetti e sulle gru, nelle università, all’Isola dell’Asinara come a Pomigliano, in Val di Susa come a L’Aquila o a Terzigno, mamme vulcaniche e forum per l’acqua, si sono assunti una responsabilità che va molto al di là del proprio semplice, individuale, pur legittimo, interesse e ruolo di cittadini e di produttori.

Eppure, nonostante la mobilitazione in corso da mesi negli atenei italiani, il DdL sta per entrare alla Camera per essere ‘discusso’ (anche qui le virgolette sono d’obbligo) per una rapida approvazione. Tutto ciò è surreale. Un governo coi giorni contati, bloccato su qualsiasi altro progetto legislativo, non sembra ancora rinunciare a condurre in porto questa controriforma, tanto è grande l’arrogante sicurezza che i cittadini di questo paese non siano in grado di capire e difendere le ragioni della cultura, della ricerca, dei beni comuni e dei loro produttori. Questo governo ha finora rifiutato un confronto vero con le istanze della mobilitazione. E a Cortona, mentre dichiarava che il Governo aveva le ore contate, nello stesso tempo Fini sottolineava quanto il FLI tenga alla riforma universitaria della Gelmini.

In questo contesto, l’opposizione parlamentare non può in nessun modo accettare che questa riforma contro il sapere sia approvata da una maggioranza sfiduciata persino da se stessa. L’Università merita una riforma vera e condivisa con il mondo universitario concreto: non con la CRUI, suo distorto ologramma; ma piuttosto con i ricercatori, strutturati e precari, con le nuove leve dell’apparato tecnico-amministrativo, che sono l’università di domani, e con gli studenti, il futuro del paese.

Se l’opposizione parlamentare vuole realmente costruire un’alternativa per il paese parta da qui. In questa situazione politica, non si può varare una riforma che pretende di essere strutturale (di fatto lo è, ma andando nella direzione dello smantellamento dell’università pubblica statale e dell’istituzionalizzazione dei suoi mali). Dichiarazioni pubbliche, emendamenti e voto contrario non bastano. Si dimostri limpidamente, nei fatti, di fronte a tutto il paese e all’opinione pubblica internazionale che il parlamento è diviso su questioni strategiche di grande rilevanza collettiva, e non solo sulle vicende private del Presidente del Consiglio. L’opposizione parlamentare chieda con forza e determinazione il ritiro del DdL, esca dall’Aula al momento del voto, rendendo esplicite le responsabilità politiche di ciascuno. In questo frangente politico, le opposizioni ne hanno tutti gli argomenti e le ragioni. Se così non fosse, questa macchia riapparirà su qualunque vestito ‘buono’ ci si prepari ad indossare. Se si tiene al futuro del paese, ci si assuma la responsabilità di opporsi con tutte le energie a questa riforma, e quindi di farne un’altra (di cui c’è bisogno) in un nuovo quadro politico, quando l’alternativa avrà preso corpo e, si spera, ci saranno le condizioni per avviare un dialogo con tutte le forze sane del paese.

Anna Carola Freschi (Università di Bergamo) e Vittorio Mete (Università di Catanzaro)

Ricercatori indisponibili

Anna Carola Freschi su http://www.gennarocarotenuto.it