giovedì 28 ottobre 2010

Messaggio da Marco Merafina

La discussione in aula della Camera del DDL Gelmini e' calendarizzata per il 18 novembre e il voto sara' per il 25 novembre.
L'On. Ghizzoni (PD), incontrato poco fa in un incontro alla Sapienza, ci ha rese note le intenzioni della Camera dei Deputati secondo una
decisione presa ieri sera.
Il Governo ha intenzione quindi di andare spedito e fino in fondo.
C'e' assoluto bisogno di riportare l'attenzione sul problema del DDL
Gelmini e sulla protesta dei ricercatori che ovviamente deve continuare.

cordialmente
Marco Merafina

martedì 26 ottobre 2010

Ricevimento 27 ottobre

La Dott. Mancini riceve il 27 ottobre alle ore 15 nel suo ufficio.

giovedì 21 ottobre 2010

messaggio CPU

*con preghiera di massima diffusione*


COMUNICATO SUI 9000 POSTI



Da giorni i lavoratori precari della ricerca e della docenza delle
università italiane sono costretti a leggere sui giornali, o ad ascoltare
negli spazi informativi televisivi, mistificanti resoconti e commenti sulla
vicenda delle 9.000 posizioni universitarie promesse dal Ministro Gelmini
per agevolare l’approvazione della cosiddetta “riforma universitaria” e per
le quali mancherebbero i fondi. Questa prassi inaccettabile è stata fatta
propria anche da diversi esponenti politici, da ultimo il leader
dell'Italia dei Valori, Antonio di Pietro, nella puntata di “Ballarò” del 19
ottobre 2010.



Vogliamo sottolineare come questi 9.000 posti non sono, nelle intenzioni del
Ministro, destinati all’assunzione di precari, ma a concorsi per posizioni
di professore associato riservati, *de jure* o *de facto*, ad avanzamenti di
carriera di ricercatori universitari già stabilmente assunti a tempo
indeterminato che, dunque, in nessun modo rischiano di perdere il proprio
posto di lavoro.



La promessa di questi 9.000 posti altro non è che un modo per comprare il
consenso di una parte minoritaria dei ricercatori a tempo indeterminato e
non avrebbe alcun effetto sulla situazione di oltre 60.000 precari della
ricerca e della docenza che sono essenziali all'attività quotidiana che si
svolge in tutte le università italiane, spesso subendo il ricatto di
Consigli di Facoltà pronti a barattare false opportunità per il futuro con
prestazioni di lavoro gratuite o sottopagate. Casomai, anzi, la scelta di
dirottare risorse esclusivamente sulle promozioni di chi già occupa
posizioni stabili avrebbe l’effetto di cancellare ogni possibilità di
accesso per i lavoratori precari.


Roma, 21 Ottobre 2010

CPU - Coordinamento nazionale Precari Università


http://coordinamentoprecariuniversita.wordpress.com

La parola università esiste

La parola università esiste




Una riforma all'anno
È passato ormai quasi un anno da quando è stata presentata la prima versione del ddl Gelmini, che contiene una riforma radicale dell'università. La riforma investe il piano della catena decisionale di autogoverno, il reclutamento, il ruolo e le funzioni di tutti quanti studiano, lavorano e insegnano nell'università, studenti compresi. Si tratta dell'ultimo atto di una lunga sequenza di interventi normativi e legislativi. Se si considera la riforma Berlinguer-De Mauro del 2001 come il punto di partenza di questa compulsione legislativa, risulta che solo il biennio 2002-2003 e il 2006 sono gli anni rimasti privi di un intervento legislativo/normativo sull'università. Di tutti i tentativi di riforma è impossibile oggi dar compiutamente conto: spiace constatare che ogni governo ha ritenuto di doversi produrre in un tentativo di riforma dell'università. Basta solo questo dato a chiedersi: quale momento della vita pubblica, quale istituzione democratica avrebbe potuto resistere ad un attacco normativo così ripetuto? Nel 2000-2001 abbiamo avuto la riforma Berlinguer-De Mauro, che ha trasformato le vecchie lauree quadriennali nell'attuale sistema del 3+ 2, nel 2004 la rivisitazione di quella legge operata dal ministro Moratti, nel 2005 la legge Moratti, nel 2007 i decreti Mussi, nel 2008 la legge 133: nel 2009 il ddl Gelmini, finalmente, come la Maria Venera di un celebre romanzo di Gesualdo Bufalino, sfolgorò.

C'è qualcosa in comune tra tutti questi cambiamenti, maturati in contesti politici diversi e con ministri di ben diversa caratura? Purtroppo sì. I ministri-intellettuali, Berlinguer, De Mauro, Mussi, e quelli identificabili, diciamo così, come "donne e uomini del fare", lo studioso degli aspetti linguistici dell'Italia unita e la giovane avvocatessa lombarda (una probabile coppia di antonimi) hanno cercato e cercano di rispondere ad un'unica domanda. L'Italia non ha avuto per anni una legge che organizzasse la vita di un un'università divenuta di massa di fatto, ma senza nessun corredo legislativo. Dopo il 1968 l'università italiana diventa davvero un'università per molti ma l'assetto legislativo rimane quello precedente, concepito per un'università solo per pochi. E tutti i 'riformatori' sono andati, con prospettive differenti, nella stessa direzione: fare dell'università un luogo prossimo, il più vicino possibile, al mercato del lavoro. Il senso ultimo della riforma del 3+2 è esattamente questo: far aumentare il numero di laureati (con l'introduzione della laurea triennale). L'idea è semplice e, in qualche modo, arcaica: il mercato del lavoro, che è regolato da sue logiche interne, determina le scelte e gli orientamenti della politica formativa dello stato nazionale. Alla domanda "a cosa serve l'università?" si dà una risposta facile e, apparentemente, scontata.
L'ispirazione di questa linea riformatrice trasversale a tutti gli schieramenti politici è da cercarsi nel mondo che gravita attorno a Confindustria, in particolare in una sua emanazione: l'associazione "TreeLLLe. Per una società dell'apprendimento continuo". I soci fondatori e garanti (nomi che traggo da un loro quaderno del 2008) tradiscono l'origine, che un tempo, nell'archeolingua, si sarebbe detta "di classe", dell'associazione stessa: Fedele Confalonieri, Gian Carlo Lombardi, Luigi Maramotti, Pietro Marzotto, Attilio Oliva, Marco Tronchetti Provera. L'associazione è organizzata per svolgere un dichiarato, trasparente ed efficace lavoro di lobbying. Al nucleo duro degli industriali soci fondatori si unisce così un comitato allargato di personalità, esperti e advisors (è parola loro) che comprende: molti rettori o ex rettori (come Fabio Roversi Monaco), direttori o ex direttori di grandi quotidiani (come Ezio Mauro, Marcello Sorgi, Ferruccio De Bortoli), scrittori, intellettuali, uomini politici, ministri ed ex ministri, costruttori dell'opinione altrui (come Umberto Eco, Tullio De Mauro, Angelo Panebianco, Giuseppe De Rita, Sergio Romano, Luciano Modica, Giuseppe Valditara). Si capisce bene, allora, come mai, su un progetto di riforma così discusso e inviso al mondo universitario, quale è il disegno di legge Gelmini, si dia un sostanziale accordo di tutti i grandi quotidiani nazionali: la parola lobby esiste.

Il filo rosso che attraversa tutte le riforme del sistema universitario passa da qui ed è semplicisticamente riassumibile con la parola "subalternità": subalternità della formazione universitaria alle logiche di mercato, subalternità della cultura e della ricerca alle istanze di quella scienza triste che è l'economia, subalternità dello stato nazionale all'industria privata. Questa subalternità non appare oggi scandalosa quasi a nessuno, è ormai senso comune in tutti i paesi europei, è stata oggetto di documenti di grande rilevanza della comunità europea. Quando si parla di "Europa della conoscenza" si vede nella conoscenza non un valore in sé, come la nostra tradizione culturale ci ha insegnato a pensare, ma soprattutto lo strumento per innalzare il tenore di vita della società. È in questo contesto che si inserisce il ddl Gelmini sull'università, ed è da qui che bisogna partire per comprenderne la velenosa ed esiziale portata per il paese e il suo sistema universitario.
Il ddl Gelmini
Si tratta di una riforma ambiziosa, ma concepita da animi poco generosi, la cui principale preoccupazione sembra essere quella di rispondere alla domanda "chi comanda qui?". Una riforma dell'università che non affronta nessun tema di rilevanza culturale ma si preoccupa solo di regolare il traffico dell'università, accompagnare in platea (poltrone numerate) i professori ordinari e spedire nel loggione, anzi nel foyer, i ricercatori, confermando l'orientamento della legge Moratti a estinguere sostanzialmente questo ruolo che l'assetto normativo dell'università italiana, a partire dal DPR 382, ha voluto e mantenuto ibrido, sospeso incomprensibilmente nel limbo tra ricerca e didattica.
Cosa cambia, perché cambia
Più di ogni altra cosa cambiano le procedure attraverso cui l'università costituisce le sue politiche e le sue decisioni. Fino ad oggi a decidere sono i consigli: di dipartimento, di corso di laurea, di facoltà e il senato accademico. Il consiglio d'amministrazione verifica la realizzabilità della volontà politica del senato accademico, che è costituito da interlocutori 'forti', sotto il profilo della valenza democratica, vincolati all'assemblea che li ha eletti: presidi di facoltà e direttori di dipartimento. Nella formazione delle decisioni politiche dell'attuale università pesano, così, accanto alle forme della democrazia rappresentativa, le istanze della democrazia assembleare, o, come la chiamava Pietro Ingrao, della "democrazia di base". La ricchezza delle forme democratiche della più alta istituzione culturale e scientifica del paese non è un capriccio: la democrazia delle istituzioni del paese rafforza quella dello stato, esemplifica e corrobora i meccanismi di formazione del consenso dentro la res publica. Il ddl riduce il ruolo del senato accademico a quello di una curia di saggi, chiamata a dare buoni consigli che possono essere disattesi; perché il motore delle decisioni diventa il Consiglio di Amministrazione, il luogo cioè della nuda istanza economica e finanziaria. Diminuiscono, fin quasi a scomparire, i luoghi di discussione e di confronto e agli organi di governo dell'ateneo si arriva per elezione diretta, non per rappresentanza assembleare. Ciò che può sembrare una buona cosa è in realtà un frutto avvelenato. Il modello di autogoverno assembleare di oggi sarebbe sostituito da un modello esclusivamente rappresentativo, in cui il solo momento di confronto tra l'elettorato e gli eletti è quello del voto. Si realizza, dunque, anche nel governo universitario, il paradosso autoritario del monopolio della politica da parte di un ceto di tecnocrati. Ai più si chiede il piccolo impegno del voto, come per liberarli dall'obbligo dell'attività politica. Il nuovo totalitarismo (o "totalitarismo invertito"), secondo la formula del fortunato libro di Sheldon W. Wolin, Democracy Incorporated: Managed Democracy and the Specter of Inverted Totalitarianism (Princeton University Press, 2008), si invera attraverso la riduzione della 'contesa' democratica al solo momento elettorale. Si tratta dell'affermazione di quel "dispotismo mite" già profetizzato da Alexis de Toqueville, che il politologo americano, definito da Remo Bodei, forse con un po' d'enfasi, il Norberto Bobbio d' America, ritiene già operante nella democrazia statunitense. Questo modello di democrazia è compatibile con una prevalenza del principio di piacere e una vera e propria nuova antropologia, come quella tratteggiata da Massimo Recalcati ne L'uomo senza inconscio. Liberare dal peso della democrazia e della vita activa, presentare la partecipazione alla vita politica, a tutti i livelli, come un ostacolo all'affermazione della ricerca di un piacere vuoto, dilagante, perché non arginato dal controllo superegoico, e autoreferenziale: questo è il passaggio fondamentale su cui ricostruire una nuova condizione di vita delle istituzioni democratiche, riducendo al massimo, così, il numero dei decisori. L'homo Berlusconianus, il nuovo civis che s'affaccia all'orizzonte, infatti, è gaudente, ilare, consuma solo esperienze di piacere e mette rapidamente tra parentesi la sacra esperienza del dolore. È a lui che questo modello di democrazia ultralight guarda. L'università diviene così l'ennesimo laboratorio in cui si mette alla prova un modello di governo e di vita politica che si vorrebbe, con ogni evidenza, estendere al paese. Per intendere appieno la volontà di annullare il conflitto tra principio di realtà, istanza morale e principio di piacere, delegando l'onere di decidere ad un ceto di "professionisti della decisione", basta pensare al carattere ossimorico di un nesso come "leggi ad personam", la cui portata semantica, a causa del continuo riuso dell'espressione, non è forse stata opportunamente soppesata.
Che lo si voglia o no, pur tra le numerose differenze che ancora resistono, è chiaro che il tentativo che sta dietro la legge è quello di assimilare le procedure decisionali delle università a quelle aziendali. Manca ancora un passaggio, la nomina del rettore da parte della proprietà dell'azienda, il Ministero dell'Università, ma è un passo che ci si può ragionevolmente attendere nel tempo. Del resto, il commissariamento delle università incapaci di amministrarsi evoca, sia pure come soluzione straordinaria ed episodica, proprio questo passaggio.
Non posso soffermarmi su tutti gli aspetti del ddl in questa sede, ma spero che una più completa discussione si svolga oggi pomeriggio nel consiglio di facoltà pubblico che si terrà nella "Sala degli specchi", nei locali dell'amministrazione provinciale di Cosenza, a Piazza Prefettura. La convocazione di un'assemblea come questa in un luogo esterno all'università è un fatto insolito, per la Facoltà di Lettere e Filosofia senza precedenti. Il differimento dell'inizio delle lezioni al 18 ottobre e questo consiglio di facoltà valgono a trasmettere a tutta la società calabrese, non solo alla piccola comunità degli universitari, il nostro senso di allarme e preoccupazione. Una preoccupazione non rituale, non consueta. Il vero salto di qualità di questo ddl rispetto agli atti normativi precedenti consiste nell'adozione di una logica aziendale come modello di conduzione delle università. L'aziendalismo è diventato negli ultimi anni soprattutto una sofistica, un repertorio di temi retorici piegati a mostrare che non ci sono decisioni da prendere, ma necessità da subire. Chiudere anche l'università in questa gabbia significa rinunciare definitivamente alla possibilità che l'università stessa, la più alta istituzione culturale e formativa del paese, possa diffondere e sostenere idee e proposte che lo sguardo di chi è fermo all'immediato ‘qui e adesso’ non riesce neanche a immaginare. Ma ridurre un'istituzione di ricerca e formazione ad un'appendice del mercato del lavoro o ad un'anticamera di Confindustria è anche un impoverimento della democrazia del paese, che ha bisogno di spazi pubblici dove le ragioni della critica dei saperi e delle pratiche siano sempre e comunque agibili.

Raffaele Perrelli
Preside Facoltà di lettere e Filosofia
Università della Calabria

mercoledì 20 ottobre 2010

Il ministro Gelmini non sa di cosa parla (o, forse, lo sa troppo bene)

Ricercatori per una Università
Pubblica, Libera, Aperta

www.rete29aprile.it

Comunicato stampa

Il ministro Gelmini non sa di cosa parla (o, forse, lo sa troppo bene)


Lascia sorpresi il contenuto delle affermazioni rilasciate dal ministro Maria Stella Gelmini
alla trasmissione “Mattino Cinque”. Secondo il ministro qualche università potrebbe chiudere come
conseguenza del dissesto finanziario, «Non a caso la riforma prevede la fusione piuttosto che la federazione di
atenei diversi come strumento per favorire una riprogrammazione dell’offerta formativa», ha proseguito il ministro.
La prima risposta a queste affermazioni è che è proprio la politica dissennata di tagli al fondo di finanziamento
ordinario, avviata nel giugno 2008, a stare alla base del dissesto finanziario degli atenei. Parlando di dissesto come se
esso fosse caduto dal cielo e non invece provocato da lei e dalla sua miope politica, il ministro trasforma quella che è
una conseguenza (il dissesto) della sua azione in un evento causato da cattive gestioni locali.
Abbiamo più volte sottolineato come alla base della cattiva gestione di alcuni atenei vi siano precise responsabilità
politiche e gestionali contro le quali il ministro non ha mosso un dito. Questo governo, del resto, mostra di non
considerare per nulla il principio della accountability quando si tratta di risorse pubbliche, prima tagliando in maniera
drastica i fondi alle università e poi lanciando allarmi conditi con lacrime di coccodrillo.
Vi sono molti problemi nell’università italiana, legati soprattutto alla presenza in molti atenei
di centri di potere in gran parte responsabili delle passate gestioni. Ci dica, On. Gelmini, cosa fa la
sua riforma per colpire questi centri di potere? Forse pensa di colpirli accentrando il controllo degli
atenei nelle mani di rettori e consigli di amministrazione designati dall’alto? Oppure pensa che ridimensionare
la partecipazione delle componenti universitarie negli organi di governo sia una garanzia
per gestioni più trasparenti ed efficienti?
Il ministro ha anche parlato del peccato originale delle università italiane, l’autoreferenzialità, indicando
la strada nella costituzione di centri di eccellenza legati al territorio e al mondo produttivo. Ovviamente, in questo
disegno, i centri di eccellenza potranno essere solo due o tre, e il resto? università impoverite, mega-licei che dovranno
colmare i ritardi e i limiti di una scuola pubblica colpita ancora più duramente? Colpisce poi il riferimento, molto
americano, al legame tra università e mondo produttivo. Esiste già, ministro, ci creda, solo che quello che si fa nel
Massachuset o in West Virginia, non lo si fa in Basilicata o in Piemonte: in Italia l’apporto dell’imprenditoria privata
alle università pubbliche è risibile, e non è colpa dell’autoreferenzialità. Forse, ci dicono, dipende dal fatto che il tessuto
produttivo italiano è diverso da quello statunitense, e il mito di una università come motore di idee per i grandi trust
industriali vale solo se parli inglese e sei nato sotto la bandiera a stelle e strisce.
Quello che serve all’università italiana, che sforna ottimi ricercatori e studiosi, è un ministro meno prigioniero
di vieti schemi ideologici, che parli europeo e abbia una visione moderna dell’università che, dagli anni Sessanta in poi,
possa spiacere o piacere, è e deve restare una università di massa. Con eccellenze, certo; con università inevitabilmente
migliori e peggiori, ma certo tutte correttamente finanziate e considerate una risorsa strategica per il futuro e per la
crescita del Paese.
Le sue parole d’ordine e i suoi proclami non ci bastano ministro. Le sue esaltazioni del merito e della premialità,
dell’aziendalismo e dell’efficientismo nascondono a malapena un disegno di smantellamento dell’università pubblica
per restituire al paese una gioventù più ignorante, meno critica e meno dotata degli strumenti per non credere alle
fandonie che ormai, quotidianamente, ci sommergono. L’«impostazione falsamente egualitaria del Sessantotto» non
è solo un’affermazione senza senso, è la negazione dei valori che stanno iscritti nella nostra Costituzione. L’Università
deve essere pubblica, libera e aperta, non privata, prigioniera di interessi e chiusa.
La Rete 29 Aprile

lunedì 18 ottobre 2010

ricevimento 20 ottobre

La Dott. Mancini riceve gli studenti il 20 ottobre 2010 alle 9 nel suo studio.

sabato 16 ottobre 2010

petizione "Per non rinunciare al futuro"

Dario Fo ha voluto essere il primo firmatario di un testo in difesa dell'università predisposto da Piero e poi da lui rivisto. La famiglia del premio Nobel e Stefano Benni hanno ugualmente firmato per primi. A loro si sono aggiunti i membri della giunta e sarebbe importante che lo firmassimo tutti. E' un bell'appoggio all'azione.
a favore dll'università publica. Qui il link:

http://www.petizionionline.it/petizione/per-non-rinunciare-al-futuro/2314

Ascanio Celestini all'UNICAL - Piccolo Teatro

“PERCORSI DI RICERCA FRA RACCONTI TEATRO E CINEMA - INCONTRO CON ASCANIO CELESTINI”

a cura di Carlo Fanelli

mercoledì 20 ottobre ore 16:00 - Piccolo Teatro Unical



L’attore e regista Ascanio Celestini, ospite in mattinata della Società Kostner e dell’Associazione Anec-Calabria, per presentare il suo film La pecora nera e partecipare all’evento finale dell’XI edizione de “La Scuola a Cinema”, mercoledì 20 ottobre alle ore 16:00 sarà presente al Piccolo Teatro dell’Università della Calabria a: “PERCORSI DI RICERCA FRA RACCONTI TEATRO E CINEMA. INCONTRO CON ASCANIO CELESTINI”, a cura di Carlo Fanelli. L’iniziativa, organizzata dall’Associazione Culturale Zahir in collaborazione con il corso di Laurea Magistrale in Linguaggi dello Spettacolo, del Cinema e dei Media e il Centro Arti Musica e Spettacolo dell’Università della Calabria, si pone l’obiettivo di ripercorrere l’esperienza teatrale di Celestini attraverso un dialogo con l’attore e regista aperto alla cittadinanza, alla comunità accademica e alla popolazione studentesca.

All’incontro interverranno: Raffaele Perrelli, Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia Unical, Roberto De Gaetano, Presidente del C.d.L. Magistrale in Linguaggi dello Spettacolo, del Cinema e dei Media e Carlo Fanelli, docente del C.d.L. in Comunicazione e D.A.M.S.

mercoledì 13 ottobre 2010

Ricevimento 14 ottobre 2010

La Dott.ssa Mancini riceve alle ore 9.30 del 14 ottobre 2010 nel suo ufficio.

Partecipate! E' un incontro importante!

Soprattutto i miei laureandi sono gentilmente invitati a partecipare:

GIOVEDÌ 14 OTTOBRE 2010 ORE 11
AULA MULTIMEDIALE · BIBLIOTECA BAU

Presentazione del volume Nation & Novel
di Patrick Parrinder


Introdurrà il libro Marilena Parlati (Università della Calabria)

Sarà presente l’autore

sabato 9 ottobre 2010

da Informare controinformando: SOS PRECARI!

Il presidente dell'INPS Antonio Mastropasqua ha finalmente risposto a chi gli chiedeva perché l'INPS non fornisce ai precari la simulazione della loro pensione futura come fa con gli altri lavoratori: "Se dovessimo dare la simulazione della pensione ai parasubordinati rischieremmo un sommovimento sociale".

I precari, i lavoratori parasubordinati come si chiamano per l'INPS gli "imprenditori di loro stessi" creati dalle politiche neoliberiste, non avranno la pensione. Pagano contributi inutilmente o meglio: li pagano perché L'INPS possa pagare la pensione a chi la maturerà. Per i parasubordinati la pensione non arriverà alla minima, nemmeno se il parasubordinato riuscirà, nella sua carriera lavorativa, a non perdere neppure un anno di contribuzione.

L'unico sistema che l'INPS ha trovato per affrontare l'amara verità, è stato quello di nascondere ai lavoratori che nel loro futuro la pensione non ci sarà, sperando che se ne accorgano il più tardi possibile e che facciano meno casino possibile.

Non si può non notare come anche la politica taccia su questo scandalo, ma non ci si potrebbe attendere altrimenti, perché a determinare questo scandalo hanno contribuito tutti i partiti attualmente rappresentati in parlamento, nessuno escluso.

I precari, tenuti all'oscuro o troppo occupati a sopravvivere, difficilmente noteranno la dichiarazione di Mastropasqua al Corriere della Sera e i media sembrano proprio intenzionati a non rovinare loro la sorpresa. Proprio una bella sorpresa.

venerdì 8 ottobre 2010

Lettera aperta a studenti e genitori dal CNRU

Lettera aperta a studenti e genitori da parte del Coordinamento Nazionale Ricercatori Universitari



Cari studenti e genitori,

i “ricercatori” universitari italiani stanno protestando contro il DDL sull’Università e la manovra finanziaria dell’On. Tremonti.

Questa forma di protesta comporterà disagi anche per voi, quindi riteniamo giusto che sappiate perché parte della difficoltà che sta vivendo l’Università sarà anche da voi condivisa.

L’Università sta vivendo un momento difficile. Le risorse a disposizione sono andate riducendosi negli anni, i fondi per la ricerca e per la didattica sono diventati talmente esigui che spesso non si riesce a fornire il minimo necessario. Talvolta mancano i fondi per le fotocopie e, sempre più spesso, anche per la carta igienica, come in moltissime scuole.

Negli anni scorsi la necessaria espansione della conoscenza e l’indispensabile insegnamento della stessa ha richiesto ad una società moderna come la nostra di ampliare l’offerta formativa degli atenei. Il termine offerta formativa indica ciò che gli atenei possono mettere a disposizione dei cittadini del proprio territorio e del proprio Paese in termini di corsi e di didattica. L’aumento di tale offerta non è un capriccio di gente che seduta dietro ad una scrivania pensa a come impiegare tempo e denaro altrui. In realtà, è un atto di responsabilità che tiene conto delle esigenze del presente, che cerca di offrire ai giovani gli strumenti per meglio affrontare le sfide che la moderna società pone. Le mille sfaccettature della nostra società rendono necessaria un’offerta formativa la più variegata possibile. Un giovane deve poter scegliere tra mille possibilità formative, non tra dieci come nel passato, perché a differenza del passato le opportunità di lavoro sono diversificate così come gli interessi che attendono i giovani di oggi.

Ma nessuna offerta formativa ha un vero valore se la “società” non è in grado di offrirla al numero più alto possibile di giovani. E questo vale soprattutto in un periodo di crisi, allorquando le famiglie economicamente più deboli sono anche le più colpite dall’aumento dei costi per l’accesso dei propri figli all’Università.

I tagli al finanziamento dell’Università già da tempo hanno messo in crisi questo sistema e i “ricercatori” si sono sacrificati negli anni, svolgendo un compito che permettesse di mantenere la qualità e la quantità dell’offerta formativa e cioè della didattica.

Questo significa che molti tra quelli che chiamate “professori” e che hanno insegnato corsi, hanno fatto esami, hanno assistito gli studenti nelle loro tesi e che hanno raccolto i dubbi e le frustrazioni durante i vostri anni d’università non sono veri “professori”, ma “ricercatori”, gente che per dovere deve fare ricerca e non “insegnare” e “fare lezione”. Questo significa che per fare ciò che permette agli studenti di imparare, superare gli esami e diventare “dottori”, il ricercatore deve scegliere tra il proprio dovere e l’interesse dell’università e degli studenti. Sì, perché solo facendo ricerca e pubblicandola un ricercatore può incrementare il suo punteggio per fare “carriera” e diventare “professore” di ruolo. La didattica che permette di mantenere l’offerta formativa e agli studenti di laurearsi, non è utile per superare un concorso e per progredire nella propria carriera. Tutto questo sembra incredibile, quasi verrebbe da ridere, se non fosse che molti giovani ricercatori guadagnano 1.250 euro al mese, si bloccano gli scatti di anzianità, si riduce la tredicesima e via di questo passo.

Si esce da una crisi anche aumentando le possibilità creative e di conoscenza dei giovani, si esce da una crisi investendo sul futuro, come è stato fatto in altri Paesi, e non penalizzando le Università che debbono formare e trasmettere la creatività e la conoscenza. Si esce da una crisi anche sponsorizzando chi ha lavorato al di là delle proprie competenze, perché ha mostrato il proprio valore. Molti, inoltre, perderanno il loro posto di lavoro, perché “precari” o “a contratto”, pur avendo insegnato e seguito gli studenti.

I ricercatori stanno protestando nell’unica maniera civile e legale a loro concessa. D’ora in poi si atterranno soltanto a ciò che il loro statuto giuridico impone. Quindi, non insegneranno più: la conseguenza sarà la riduzione dell’offerta formativa degli atenei. Molti studenti andando nelle segreterie non troveranno più, probabilmente, i corsi che avrebbero voluto frequentare e dovranno cercarseli in altre università, ammesso che in altre università, senza i “ricercatori”, tali corsi possano essere attivati. Questa è la realtà.

Le tasse di iscrizione aumenteranno, i servizi per gli studenti si ridurranno, l’offerta formativa calerà drasticamente in quantità e qualità. Ecco perché interessa anche a voi la protesta dei “ricercatori”.

I “ricercatori” stanno protestando per far sì che il futuro dell’Università e dei giovani non sia pregiudicato da tagli alle risorse; i “ricercatori” stanno protestando per avere una “riforma” che preveda un’Università pubblica pienamente efficiente, che preveda un futuro per tutti i giovani, che permetta all’Università pubblica di offrire le stesse opportunità a tutti i suoi cittadini. Perché laurearsi non torni ad essere un privilegio di pochi.

L’Università deve essere riformata, guarita, restaurata, amata, desiderata, coccolata; non bistrattata, impoverita e dimenticata tra i denti di chi la vuole smembrare e sbranare.

Evitare tutto questo dipende in gran parte da noi che lavoriamo nelle università, ma anche dagli studenti e dai loro genitori: insomma, dipende da tutti gli Italiani.

Aiutateci a darvi il futuro che tutti meritiamo.



Coordinamento Nazionale Ricercatori Universitari

Vargas Llosa - il potere della letteratura

http://tv.repubblica.it/copertina/vargas-llosa-e-il-potere-della-letteratura/54326?video

mercoledì 6 ottobre 2010

venerdì 8 ottobre - Cosenza - piazza 11 settembre

Ricevo e posto per voi!

Su iniziativa degli studenti medi in tutta italia venerdì 8 ottobre si
terranno iniziative di sensibilizzazione e di lotta da parte del
"comparto della conoscenza". A cosenza si è pensato di fare un piccolo
corteo, ma soprattutto un'assemblea in piazza 11 settembre per
sensibilizzare la città rispetto a quanto sta accadendo all'istruzione
pubblica italiana. Ci saranno gli studenti medi, noi studenti
universitari ed i precari della scuola. Ed i ricercatori dell'Unical?
Lo so che è tardi, ma i tempi sono stati strettissimi anche per noi.
Tutti coloro intendono non fare una lotta corporativa ma una battaglia
politica in difesa dell'istruzione pubblica dovrebbero aderire,
intervenire e far capire alla città di Cosenza cosa accade.

Saluti.

Flavio

domenica 3 ottobre 2010

Lodo Lega, la banda armata non è più reato

Homepage > BLOG di Marco Travaglio

Archivio cartaceo | di Marco Travaglio

2 ottobre 2010


Lodo Lega, la banda armata non è più reato

Dopo tante leggi ad personam/s per Silvio B., eccone una per i fedelissimi di Umberto B., in nome della par condicio. La norma è ben nascosta in un decreto omnibus che entra in vigore fra pochi giorni, il 9 ottobre: il Dl 15.3.2010 n. 66 pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale l’8 maggio col titolo “Codice dell’Ordinamento Militare”. Il decreto comprende la bellezza di 1085 norme e, fra queste, la numero 297, che abolisce il “Dl 14.2.1948 n. 43”: quello che puniva col carcere da 1 a 10 anni “chiunque promuove, costituisce, organizza o dirige associazioni di carattere militare, le quali perseguono, anche indirettamente, scopi politici” e si organizzano per compiere “azioni di violenza o minaccia”.

Il trucco c’è e si vede: un provvedimento che abroga una miriade di vecchie norme inutili viene usato per camuffare la depenalizzazione di un reato gravissimo e, purtroppo, attualissimo. Chissà se il capo dello Stato, che ha regolarmente firmato anche questo decreto, se n’è accorto. L’idea si deve, oltreché al ministro della Difesa Ignazio La Russa, anche al titolare della Semplificazione normativa, il leghista Roberto Calderoli. Che cos’è venuto in mente a questi signori, fra l’altro nel pieno dei nuovi allarmi su un possibile ritorno del terrorismo, di depenalizzare le bande militari e paramilitari di stampo politico? Forse l’esistenza di un processo in corso da 14 anni a Verona a carico di politici e attivisti della Lega Nord sparsi fra il Piemonte, la Liguria, la Lombardia e il Veneto, accusati di aver organizzato nel 1996 una formazione paramilitare denominata “Guardia Nazionale Padana”, con tanto di divisa: le celebri Camicie Verdi, i guardiani della secessione. Processo che fino a qualche mese fa vedeva imputati anche Bossi, Maroni, Borghezio, Speroni e altri cinque alti dirigenti che erano parlamentari all’epoca dei fatti, fra i quali naturalmente Calderoli.

In origine, i capi di imputazione formulati dal procuratore Guido Papalia sulla scorta di indagini della Digos e di copiose intercettazioni telefoniche, in cui molti protagonisti parlavano di fucili e armi varie, erano tre: attentato alla Costituzione, attentato all’unità e all’integrità dello Stato, costituzione di una struttura paramilitare fuorilegge. Ma i primi due, con un’altra “legge ad Legam”, furono di fatto depenalizzati (restano soltanto in caso di effettivo uso della violenza) nel 2005 dal centrodestra ai tempi del secondo governo Berlusconi. Restava in piedi il terzo, quello cancellato dal decreto La Russa-Calderoli. I leader leghisti rinviati a giudizio si erano già salvati dal processo grazie al solito voto impunitario del Parlamento, che li aveva dichiarati “insindacabili”, come se costituire una banda paramilitare rientrasse fra i reati di opinione degli eletti dal popolo. Papalia ricorse alla Corte costituzionale con due conflitti di attribuzioni fra poteri dello Stato contro la Camera, ma non riuscì a ottenere ragione. Restavano imputate 36 persone, fra le quali Giampaolo Gobbo, segretario della Liga Veneta e sindaco di Treviso e il deputato Matteo Bragantini. Ma ieri, nella prima udienza del processo al Tribunale di Verona, si è alzata l’avvocatessa Patrizia Esposito segnalando ai giudici che anche il reato superstite sta per evaporare: basta aspettare il 9 ottobre e tutti gli imputati dovranno essere assolti per legge. Stupore generale: nessuno se n’era accorto. Al Tribunale non è rimasto che prenderne atto e rinviare il dibattimento al 19 novembre, in attesa dell’entrata in vigore del decreto. Dopodiché il processo riposerà in pace per sempre. Le camicie verdi e i loro mandanti possono dormire sonni tranquilli. Il Partito dell’Amore, sempre pronto a denunciare il “clima di odio che può degenerare in violenza”, ha depenalizzato la banda armata. Per l’“associazione a delinquere dei magistrati” denunciata da B., invece, si procederà quanto prima alla fucilazione.