giovedì 21 ottobre 2010

La parola università esiste

La parola università esiste




Una riforma all'anno
È passato ormai quasi un anno da quando è stata presentata la prima versione del ddl Gelmini, che contiene una riforma radicale dell'università. La riforma investe il piano della catena decisionale di autogoverno, il reclutamento, il ruolo e le funzioni di tutti quanti studiano, lavorano e insegnano nell'università, studenti compresi. Si tratta dell'ultimo atto di una lunga sequenza di interventi normativi e legislativi. Se si considera la riforma Berlinguer-De Mauro del 2001 come il punto di partenza di questa compulsione legislativa, risulta che solo il biennio 2002-2003 e il 2006 sono gli anni rimasti privi di un intervento legislativo/normativo sull'università. Di tutti i tentativi di riforma è impossibile oggi dar compiutamente conto: spiace constatare che ogni governo ha ritenuto di doversi produrre in un tentativo di riforma dell'università. Basta solo questo dato a chiedersi: quale momento della vita pubblica, quale istituzione democratica avrebbe potuto resistere ad un attacco normativo così ripetuto? Nel 2000-2001 abbiamo avuto la riforma Berlinguer-De Mauro, che ha trasformato le vecchie lauree quadriennali nell'attuale sistema del 3+ 2, nel 2004 la rivisitazione di quella legge operata dal ministro Moratti, nel 2005 la legge Moratti, nel 2007 i decreti Mussi, nel 2008 la legge 133: nel 2009 il ddl Gelmini, finalmente, come la Maria Venera di un celebre romanzo di Gesualdo Bufalino, sfolgorò.

C'è qualcosa in comune tra tutti questi cambiamenti, maturati in contesti politici diversi e con ministri di ben diversa caratura? Purtroppo sì. I ministri-intellettuali, Berlinguer, De Mauro, Mussi, e quelli identificabili, diciamo così, come "donne e uomini del fare", lo studioso degli aspetti linguistici dell'Italia unita e la giovane avvocatessa lombarda (una probabile coppia di antonimi) hanno cercato e cercano di rispondere ad un'unica domanda. L'Italia non ha avuto per anni una legge che organizzasse la vita di un un'università divenuta di massa di fatto, ma senza nessun corredo legislativo. Dopo il 1968 l'università italiana diventa davvero un'università per molti ma l'assetto legislativo rimane quello precedente, concepito per un'università solo per pochi. E tutti i 'riformatori' sono andati, con prospettive differenti, nella stessa direzione: fare dell'università un luogo prossimo, il più vicino possibile, al mercato del lavoro. Il senso ultimo della riforma del 3+2 è esattamente questo: far aumentare il numero di laureati (con l'introduzione della laurea triennale). L'idea è semplice e, in qualche modo, arcaica: il mercato del lavoro, che è regolato da sue logiche interne, determina le scelte e gli orientamenti della politica formativa dello stato nazionale. Alla domanda "a cosa serve l'università?" si dà una risposta facile e, apparentemente, scontata.
L'ispirazione di questa linea riformatrice trasversale a tutti gli schieramenti politici è da cercarsi nel mondo che gravita attorno a Confindustria, in particolare in una sua emanazione: l'associazione "TreeLLLe. Per una società dell'apprendimento continuo". I soci fondatori e garanti (nomi che traggo da un loro quaderno del 2008) tradiscono l'origine, che un tempo, nell'archeolingua, si sarebbe detta "di classe", dell'associazione stessa: Fedele Confalonieri, Gian Carlo Lombardi, Luigi Maramotti, Pietro Marzotto, Attilio Oliva, Marco Tronchetti Provera. L'associazione è organizzata per svolgere un dichiarato, trasparente ed efficace lavoro di lobbying. Al nucleo duro degli industriali soci fondatori si unisce così un comitato allargato di personalità, esperti e advisors (è parola loro) che comprende: molti rettori o ex rettori (come Fabio Roversi Monaco), direttori o ex direttori di grandi quotidiani (come Ezio Mauro, Marcello Sorgi, Ferruccio De Bortoli), scrittori, intellettuali, uomini politici, ministri ed ex ministri, costruttori dell'opinione altrui (come Umberto Eco, Tullio De Mauro, Angelo Panebianco, Giuseppe De Rita, Sergio Romano, Luciano Modica, Giuseppe Valditara). Si capisce bene, allora, come mai, su un progetto di riforma così discusso e inviso al mondo universitario, quale è il disegno di legge Gelmini, si dia un sostanziale accordo di tutti i grandi quotidiani nazionali: la parola lobby esiste.

Il filo rosso che attraversa tutte le riforme del sistema universitario passa da qui ed è semplicisticamente riassumibile con la parola "subalternità": subalternità della formazione universitaria alle logiche di mercato, subalternità della cultura e della ricerca alle istanze di quella scienza triste che è l'economia, subalternità dello stato nazionale all'industria privata. Questa subalternità non appare oggi scandalosa quasi a nessuno, è ormai senso comune in tutti i paesi europei, è stata oggetto di documenti di grande rilevanza della comunità europea. Quando si parla di "Europa della conoscenza" si vede nella conoscenza non un valore in sé, come la nostra tradizione culturale ci ha insegnato a pensare, ma soprattutto lo strumento per innalzare il tenore di vita della società. È in questo contesto che si inserisce il ddl Gelmini sull'università, ed è da qui che bisogna partire per comprenderne la velenosa ed esiziale portata per il paese e il suo sistema universitario.
Il ddl Gelmini
Si tratta di una riforma ambiziosa, ma concepita da animi poco generosi, la cui principale preoccupazione sembra essere quella di rispondere alla domanda "chi comanda qui?". Una riforma dell'università che non affronta nessun tema di rilevanza culturale ma si preoccupa solo di regolare il traffico dell'università, accompagnare in platea (poltrone numerate) i professori ordinari e spedire nel loggione, anzi nel foyer, i ricercatori, confermando l'orientamento della legge Moratti a estinguere sostanzialmente questo ruolo che l'assetto normativo dell'università italiana, a partire dal DPR 382, ha voluto e mantenuto ibrido, sospeso incomprensibilmente nel limbo tra ricerca e didattica.
Cosa cambia, perché cambia
Più di ogni altra cosa cambiano le procedure attraverso cui l'università costituisce le sue politiche e le sue decisioni. Fino ad oggi a decidere sono i consigli: di dipartimento, di corso di laurea, di facoltà e il senato accademico. Il consiglio d'amministrazione verifica la realizzabilità della volontà politica del senato accademico, che è costituito da interlocutori 'forti', sotto il profilo della valenza democratica, vincolati all'assemblea che li ha eletti: presidi di facoltà e direttori di dipartimento. Nella formazione delle decisioni politiche dell'attuale università pesano, così, accanto alle forme della democrazia rappresentativa, le istanze della democrazia assembleare, o, come la chiamava Pietro Ingrao, della "democrazia di base". La ricchezza delle forme democratiche della più alta istituzione culturale e scientifica del paese non è un capriccio: la democrazia delle istituzioni del paese rafforza quella dello stato, esemplifica e corrobora i meccanismi di formazione del consenso dentro la res publica. Il ddl riduce il ruolo del senato accademico a quello di una curia di saggi, chiamata a dare buoni consigli che possono essere disattesi; perché il motore delle decisioni diventa il Consiglio di Amministrazione, il luogo cioè della nuda istanza economica e finanziaria. Diminuiscono, fin quasi a scomparire, i luoghi di discussione e di confronto e agli organi di governo dell'ateneo si arriva per elezione diretta, non per rappresentanza assembleare. Ciò che può sembrare una buona cosa è in realtà un frutto avvelenato. Il modello di autogoverno assembleare di oggi sarebbe sostituito da un modello esclusivamente rappresentativo, in cui il solo momento di confronto tra l'elettorato e gli eletti è quello del voto. Si realizza, dunque, anche nel governo universitario, il paradosso autoritario del monopolio della politica da parte di un ceto di tecnocrati. Ai più si chiede il piccolo impegno del voto, come per liberarli dall'obbligo dell'attività politica. Il nuovo totalitarismo (o "totalitarismo invertito"), secondo la formula del fortunato libro di Sheldon W. Wolin, Democracy Incorporated: Managed Democracy and the Specter of Inverted Totalitarianism (Princeton University Press, 2008), si invera attraverso la riduzione della 'contesa' democratica al solo momento elettorale. Si tratta dell'affermazione di quel "dispotismo mite" già profetizzato da Alexis de Toqueville, che il politologo americano, definito da Remo Bodei, forse con un po' d'enfasi, il Norberto Bobbio d' America, ritiene già operante nella democrazia statunitense. Questo modello di democrazia è compatibile con una prevalenza del principio di piacere e una vera e propria nuova antropologia, come quella tratteggiata da Massimo Recalcati ne L'uomo senza inconscio. Liberare dal peso della democrazia e della vita activa, presentare la partecipazione alla vita politica, a tutti i livelli, come un ostacolo all'affermazione della ricerca di un piacere vuoto, dilagante, perché non arginato dal controllo superegoico, e autoreferenziale: questo è il passaggio fondamentale su cui ricostruire una nuova condizione di vita delle istituzioni democratiche, riducendo al massimo, così, il numero dei decisori. L'homo Berlusconianus, il nuovo civis che s'affaccia all'orizzonte, infatti, è gaudente, ilare, consuma solo esperienze di piacere e mette rapidamente tra parentesi la sacra esperienza del dolore. È a lui che questo modello di democrazia ultralight guarda. L'università diviene così l'ennesimo laboratorio in cui si mette alla prova un modello di governo e di vita politica che si vorrebbe, con ogni evidenza, estendere al paese. Per intendere appieno la volontà di annullare il conflitto tra principio di realtà, istanza morale e principio di piacere, delegando l'onere di decidere ad un ceto di "professionisti della decisione", basta pensare al carattere ossimorico di un nesso come "leggi ad personam", la cui portata semantica, a causa del continuo riuso dell'espressione, non è forse stata opportunamente soppesata.
Che lo si voglia o no, pur tra le numerose differenze che ancora resistono, è chiaro che il tentativo che sta dietro la legge è quello di assimilare le procedure decisionali delle università a quelle aziendali. Manca ancora un passaggio, la nomina del rettore da parte della proprietà dell'azienda, il Ministero dell'Università, ma è un passo che ci si può ragionevolmente attendere nel tempo. Del resto, il commissariamento delle università incapaci di amministrarsi evoca, sia pure come soluzione straordinaria ed episodica, proprio questo passaggio.
Non posso soffermarmi su tutti gli aspetti del ddl in questa sede, ma spero che una più completa discussione si svolga oggi pomeriggio nel consiglio di facoltà pubblico che si terrà nella "Sala degli specchi", nei locali dell'amministrazione provinciale di Cosenza, a Piazza Prefettura. La convocazione di un'assemblea come questa in un luogo esterno all'università è un fatto insolito, per la Facoltà di Lettere e Filosofia senza precedenti. Il differimento dell'inizio delle lezioni al 18 ottobre e questo consiglio di facoltà valgono a trasmettere a tutta la società calabrese, non solo alla piccola comunità degli universitari, il nostro senso di allarme e preoccupazione. Una preoccupazione non rituale, non consueta. Il vero salto di qualità di questo ddl rispetto agli atti normativi precedenti consiste nell'adozione di una logica aziendale come modello di conduzione delle università. L'aziendalismo è diventato negli ultimi anni soprattutto una sofistica, un repertorio di temi retorici piegati a mostrare che non ci sono decisioni da prendere, ma necessità da subire. Chiudere anche l'università in questa gabbia significa rinunciare definitivamente alla possibilità che l'università stessa, la più alta istituzione culturale e formativa del paese, possa diffondere e sostenere idee e proposte che lo sguardo di chi è fermo all'immediato ‘qui e adesso’ non riesce neanche a immaginare. Ma ridurre un'istituzione di ricerca e formazione ad un'appendice del mercato del lavoro o ad un'anticamera di Confindustria è anche un impoverimento della democrazia del paese, che ha bisogno di spazi pubblici dove le ragioni della critica dei saperi e delle pratiche siano sempre e comunque agibili.

Raffaele Perrelli
Preside Facoltà di lettere e Filosofia
Università della Calabria