sabato 3 luglio 2010

Ricercatori per una Università Pubblica, Libera, Aperta

Ricercatori per una Università
Pubblica, Libera, Aperta

Documento dei Ricercatori delle Università italiane
a seguito dell'Assemblea Nazionale di Milano del 29 Aprile 2010

Per una Università pubblica, libera e aperta, sede di ricerca e di alta formazione
Sinopsi


I Ricercatori della Rete29Aprile presentano in questo documento le loro osservazioni costruttive per
una valida riforma strutturale degli atenei. Nel testo propongono inoltre delle linee guida per la
ridefinizione e/o nuova definizione dei parametri e delle regole per i vari aspetti della vita
universitaria, dai percorsi pre‐ruolo ai ruoli della docenza, dal finanziamento della ricerca alla sua
valutazione e finanziamento delle Università.
Lo scopo del documento, che vuole aprire un dialogo operativo con la classe politica, non è quello di
definire una proposta di legge ma quello di costituire la base operativa di tale dialogo, e si lasciano per
questo volutamente aperte molte possibilità nella trasformazione in norme delle idee qui esposte.
Punti cardine del documento si individuano nella:
• definizione di un unica figura preruolo con ben definiti compiti didattici
• distinzione nell'allocazione delle risorse tra reclutamento e progressione di carriera e
istituzione di un ruolo unico della docenza
• avvio, nell'attesa della definizione del ruolo unico, di un numero di progressioni di carriera
(tramite valutazione individuale) adeguato al sostenimento dell’attuale futura offerta
formativa, con finanziamenti ad hoc per non sottrarre risorse alla ricerca
• individuare in un meccanismo basato su idoneità nazionale congiunta con valutazione di un
progetto di ricerca la via di acceso al ruolo unico
• indicazione di strategie per un corretto finanziamento delle Università e della ricerca
1. Quadro generale
Nell'ultimo decennio si è assistito ad un accentuato deterioramento delle condizioni delle
università italiane, ormai prossime al collasso finanziario ed organizzativo. Le cause di tale
declino sono molteplici e vanno ricercate da un lato nella gestione locale delle risorse da
parte dei singoli Atenei, non sempre e non dappertutto oculata, dall'altro nel quadro
nazionale di forte incertezza creato dalle continue modifiche della legislazione in materia
universitaria e dalla progressiva riduzione delle risorse statali, con una conseguente estesa
riduzione e precarizzazione del personale. Nei prossimi due anni il finanziamento delle
Università e della Ricerca subirà ulteriori pesanti tagli, portando il sistema, già pesantemente
sottofinanziato (vedi legge 133/08 [1] e legge 1/09 [2]), al di sotto della soglia di
sostenibilità. A questo proposito è sufficiente sottolineare il fatto che nel 2012 il totale di
risorse previsto per il finanziamento delle università italiana sarà in assoluto inferiore al
fondo ad esse destinato nel 2002. Questo aspetto di particolare criticità è stato anche
sottolineato dalla 7ª Commissione permanente "Istruzione pubblica, Beni culturali" del
Senato della Repubblica che ha dichiarato che con le prospettive economiche attuali le
università nel 2011 non saranno più in grado di funzionare [3].
Nell'analisi governativa, in varie forme ripresa dai media, il sistema universitario nazionale
soffrirebbe di forti deficit in termini di prestazioni se comparato al quadro internazionale. In
realtà, la ricerca specialistica e metodologicamente più accurata [4] smentisce l'esistenza di
un gap così profondo fra l'Italia e gli altri paesi paragonabili (come Regno Unito, Francia,
Germania e Spagna), anzi, una ricerca riportata su una delle più prestigiose riviste
internazionali ha mostrato che la produttività scientifica dei singoli ricercatori italiani è a
livelli di eccellenza [5]. Le uniche vere grandi anomalie italiane, come mostrano studi
specifici, riguardano il pesante sotto‐finanziamento del sistema universitario e di ricerca e la
questione dei giovani ricercatori [5, 6, 7]. I due aspetti sono evidentemente collegati: in
Italia, il costo reale di un sistema sotto‐finanziato, ma pur sempre funzionante, è stato
scaricato sulle componenti più deboli del lavoro universitario e si è tradotto, in particolare,
in uno sfruttamento esacerbato dei ricercatori, precari e strutturati. Questo al fine di
sostenere l'offerta didattica, cioè il 'prodotto' più immediatamente visibile e facilmente
misurabile del sistema universitario ‐ l'unico considerato dal Governo.
A fondamento della riforma dunque sono poste interpretazioni arbitrarie e surrettizie dei
dati, formulate in assenza di parametri di riferimento scientifici e internazionalmente
considerati validi che permettano di valorizzare la specificità del caso italiano rispetto ai
sistemi universitari di altri paesi, e di operare, con una comparazione fondata, una critica
costruttiva e fruttuosa. Così si propone di attuare, attraverso il disegno di legge 1905S (DdL
'Gelmini') [8], un progetto di riforma delle Università malamente ricalcato sui modelli
adottati da società profondamente diverse dalla nostra. Il DdL sembra quindi non
considerare che per riformare il sistema universitario si devono imperativamente
considerare anche le interazioni fra università e società, siano esse istituzionali (scuola,
welfare), o relative alla costruzione di un patrimonio economico e sociale (sviluppo di
qualità, specificità della struttura economica e delle risorse del paese, definizione dei partner
esterni, etc.).
1.1 Una svalutazione sistematica delle risorse scientifiche e umane
In questo scenario il Governo considera l'Università, in blocco, inadeguata a contribuire
attivamente al processo di riforma, progettato quindi senza nessuna consultazione: tutte le
componenti universitarie vengono in uguale misura ritenute colpevoli di sprechi di denaro
pubblico. Analogamente, nel legiferare, non individua mai le responsabilità delle attuali
difficoltà dell’università italiana (la cattiva attuazione del 3+2, il dissesto finanziario o
l’ondata di progressioni al posto dei reclutamenti e la selezione al ribasso), come se tali
responsabilità non fossero precise e legate ai vertici del sistema. Così fa scontare ancora una
volta alle componenti più deboli il costo di un processo di 'ristrutturazione' che ha tutti i
crismi di una vera e propria dismissione e svendita 'aziendale'.
L'Università pubblica e statale, infatti, non viene mai considerata come un bene pubblico
strategico, cruciale per il paese in termini di sviluppo sociale, culturale ed economico, ma
solo come un centro di spesa ("spreco") al quale è necessario ridurre i fondi. Nel DdL 1905s,
l'obiettivo politico di smantellamento dell’istituzione universitaria pubblica è esplicito e si
evidenzia in particolare nel non prevedere adeguate coperture per le attività universitarie e
nella continua insistenza sul 'costo zero' del presunto intervento riformatore del DdL. La
retorica di modernizzazione, persino di moralizzazione dell'Università ‐ surreale quando
adottata dal ceto politico e imprenditoriale del nostro paese ‐ si accompagna ad appelli agli
studenti e ai giovani che, nelle parole del legislatore, risulterebbero premiati da questa
riforma in cui, invece, il diritto allo studio è ridotto all'osso. La riforma che demolisce
l'istituzione universitaria viene inoltre sbandierata come "riforma contro i baroni" pur
concentrando nelle loro mani di fatto il potere decisionale. Si trascura poi di evidenziare che
l'università italiana può resistere nella comparazione internazionale grazie al lavoro di
25.000 ricercatori, che baroni non sono, e di almeno altrettanti ricercatori non strutturati
che ormai da anni svolgono le stesse funzioni dei colleghi in ruolo. Solo così è stata garantita
finora la costante formazione, di importanza strategica per il futuro del paese, dei dottori di
ricerca e dei ricercatori 'non strutturati' più giovani, nonché degli studenti intenzionati a
iniziare una carriera di ricerca. Alla luce di questa "riforma", essi sono avviati ad un percorso
che a questo punto non è neppure più incerto: hanno davanti un binario morto o
l'emigrazione.
Un aspetto significativo nel DdL 1905 è il fatto che non venga garantita e sottolineata la
funzione fondante delle Università stesse, vale a dire il binomio inscindibile di ricerca e
didattica, indispensabile per realizzare una formazione di alta qualità. Il nesso ricercaformazione,
già indebolito dal sotto‐finanziamento e dall'attuazione del 3+2, è snaturato
nella misura in cui non si riconosce nella costruzione di una carriera accademica la centralità
della ricerca soprattutto nella fase iniziale, mentre il lavoro accademico viene identificato
sempre più univocamente con il carico didattico frontale.
1.2 Politiche miopi e necessità di rilanciare le università per il sistema paese
Negli ultimi anni, le scelte operate in materia di politica universitaria dai vari governi hanno
solo guardato a risolvere piccoli scogli contingenti in maniera parziale e aleatoria senza mai
davvero operare riforme di grande respiro, discusse e condivise con chi nell'università lavora
ed è in grado di cogliere aspirazioni e difetti di un sistema. Un esempio di tali scelte prive di
visione generale è costituito dalle continue variazioni delle norme che regolano il
funzionamento dell'offerta didattica universitaria dell’ultimo decennio. Innovazioni profonde
del sistema di formazione, come il passaggio dai corsi di laurea a ciclo unico ai corsi di laurea
triennali e biennali (specialistiche/magistrali) così come previste e introdotte nel quadro del
Processo di Bologna [9], non dovrebbero essere ulteriormente modificate prima che sia
trascorso almeno un quinquennio dalla loro entrata in vigore, per permettere che l'intero
nuovo ciclo di studi sia sperimentato nella sua completezza e le conseguenze sul percorso
formativo osservate sul campo. Tempi più brevi e improvvisazioni sperimentali portano
inevitabilmente alla destabilizzazione del sistema. Inducono inoltre confusione e
demotivazione dei docenti, impegnati sempre più a districarsi negli aspetti formali imposti
dai crescenti vincoli della normativa, ma anche ovviamente degli studenti, sottoposti a
percorsi di studio i cui continui cambiamenti in corso di svolgimento non permettono mai di
assumere una fisionomia matura.
E' evidente che le riforme profonde del sistema universitario non possono e non devono
essere prese a cuor leggero, ma vanno pensate e progettate con cura valutandone al meglio
le conseguenze immediate e future. Per questo le riforme, tanto più sono ambiziose, tanto
più devono essere condivise con chi è coinvolto nella loro attuazione e sostenute, nella fase
attuativa, con risorse adeguate. Le attività proprie delle università inoltre, la formazione e la
ricerca, fanno sì che i progetti di riforma che la riguardano non possono essere realizzati in
modo analogo ad interventi di tipo aziendale: il fallimento dei progetti di riforma
dell'Università ha conseguenze che un paese civile non può permettersi.
Va notato invece che, benché tutte le riforme attuali siano state precedute da grandi
proclami sulla volontà e necessità di riforme radicali, i provvedimenti presi si sono
concentrati unicamente su aspetti marginali, come la composizione delle commissioni di
concorso, senza mai inserire un vero meccanismo di responsabilità ‐ altri preferiscono
parlare di "meritocrazia" ‐ nelle scelte. Gli atenei continuano a non essere formalmente
responsabili della scelta delle persone che assumono: commissari di altre sedi le selezionano
per loro ai concorsi e alle sedi che hanno bandito non resta che chiamare chi è risultato
idoneo. Non è la composizione delle commissioni il nocciolo del problema, ma
l’individuazione della responsabilità delle scelte con valutazioni ex‐post delle scelte fatte
mediante commissioni ampie del dipartimento/struttura di destinazione.
1.3 Criticità del ruolo dei ricercatori nel sistema attuale
La filosofia sostanzialmente anti‐scientifica della visione di Università adottata dai governi
nell'ultimo decennio risulta particolarmente evidente nella marginalizzazione della funzione
di ricerca dei ricercatori e nel mancato riconoscimento della rilevanza del loro contributo
attuale al sistema universitario nazionale. Infatti la disponibilità alla didattica dei ricercatori
strutturati (il cui impegno didattico valutabile in crediti formativi non è previsto dalla
normativa vigente ‐ DPR 382/80 [10] e modifiche successive) e non strutturati ha costituito
una risorsa fondamentale per le Università, ma ha anche comportato per i ricercatori e per il
sistema stesso un costo in termini di tempo inevitabilmente sottratto al versante della
ricerca. Risorse scarse e un legame forzato fra carriere e offerta didattica hanno inoltre
prodotto effetti perversi sull'intero sistema, le cui conseguenze hanno pesato in netta
prevalenza sui ricercatori e sulle generazioni reclutate sotto diverse forme contrattuali negli
anni '90.
La negazione delle funzioni svolte dai ricercatori è il sintomo di un problema più profondo
dell’intero DdL. Lo stato giuridico dei ricercatori universitari, a trent'anni dall'istituzione del
ruolo (1980), non è stato mai definito, e con la legge Moratti 230/2005 [11] è stata prevista
per il 2013 la messa ad esaurimento di questa figura (il DDL 1905 l'anticiperebbe al 2011). La
definizione del ruolo giuridico degli attuali e dei futuri ricercatori non può quindi più essere
evitata se si vogliono affrontare in modo organico i problemi che le proposte contenute nel
DdL Gelmini e i già citati tagli invece aggravano. Si tratta di una questione cruciale per la
qualità di tutto il sistema universitario.
Un'evidente stortura del sistema, conseguenza di questa mancata definizione dello stato
giuridico, è il riconoscimento dei ricercatori come "docenti" sancito dal titolo puramente
formale di "professore aggregato" quando questo è funzionale al sistema (nel conteggio per
esempio del rapporto studenti/docenti e corsi insegnati/docenti), ma la negazione di ogni
diritto relativo a tale funzione. Il trattamento discriminatorio si è tradotto inoltre nel
prepensionamento obbligato a quarant'anni di contributi imposto a ricercatori e personale
tecnico‐amministrativo, ma non ai Professori di prima e seconda fascia. Ancora una volta la
logica di riforma poggia unicamente sul taglio acritico dei costi, reso più agevole da una
strategia di denigrazione ripetuta e costante dei lavoratori del settore a discapito di una
reale attribuzione di responsabilità.
In un contesto dominato sia dalla scarsità delle risorse sia dall'incertezza circa le regole di
utilizzo e le finalità delle stesse, diventa indispensabile operare scelte oculate che portino
senza incertezze a un rilancio e a un rinnovamento del sistema universitario come sede della
Ricerca e dell'Alta Formazione. Si deve adottare una logica di sostegno al miglioramento e
alla valorizzazione delle competenze e non provvedimenti frettolosi che diventano, nella loro
attuazione, indiscriminatamente e ingiustificatamente punitivi per tutti i lavoratori del
settore (incluso il personale tecnico‐amministrativo, su cui invece sarebbe necessario
investire).
1.4 "Meritocrazia" e valutazione
Prima di entrare nel merito di alcuni aspetti della riforma e delle richieste dei Ricercatori
universitari, occorre soffermarsi sulla nuova parola chiave di questi ultimi anni: la
meritocrazia, un termine dalla forte valenza ideologica e privo di significato se avulso dal
dibattito scientifico internazionale sulla difficile definizione del merito scientifico. E'
indiscutibile che un sistema che dà spazio a chi è 'meritevole' ‐ bravo nella ricerca, bravo
nella didattica, bravo nella divulgazione ‐ è un sistema virtuoso. Tuttavia, limitarsi ad
auspicare la "meritocrazia" senza mettere le persone e le strutture da valutare in termini di
merito nelle condizioni di svolgere efficacemente la loro funzione è semplicemente privo di
senso. L'attuazione di una strategia di valutazione che preveda premialità e disincentivi deve
quindi necessariamente prevedere un periodo di normalizzazione del funzionamento del
sistema universitario e della ricerca. Si devono poter stabilire obiettivi e progettare futuro. E'
vitale perciò che le risorse disponibili siano programmate su base pluriennale, con sistemi di
finanziamento certi e vincolati, con importi, tempi e obiettivi d’investimento tali da riportare
l'Italia in linea con i parametri di spesa internazionali che l’Italia stessa ha accettato
sottoscrivendo la strategia di Lisbona [12]. Inoltre, per raggiungere ogni tipo di obiettivo
scientifico ‐ scoperte, brevetti, formazione, investigazioni originali, comprensione e
previsione di eventi, nuove interpretazioni etc. ‐ è indispensabile che nello sforzo di
valutazione non vada perso il principio fondamentale della promozione della collaborazione
fra ricercatori, ora sacrificato a uno sterile, se interpretato alla lettera, principio di
'competizione'. Una scienza fertile è una scienza che amplia le conoscenze, il confronto
metodologico, e la sinergia delle competenze.
I ricercatori che lavorano nelle università italiane sono convinti sostenitori della necessità di
una riforma radicale del sistema. Proprio per questo ritengono che in un progetto di sviluppo
economico, culturale e sociale del Paese il riordino delle strutture e del funzionamento delle
Università non possa essere perseguito con l'unica priorità del taglio alla spesa. Considerare
la spesa sulle Università come un mero costo e non un investimento è un grave errore
strategico, segno dell'impoverimento della politica governativa dell’ultimo periodo. Non va
poi dimenticato che ormai i tagli sul finanziamento delle Università non sono più fatti
unicamente sulle spese di funzionamento degli atenei ma spesso sulla copertura degli
stipendi del personale: in tal modo vengono vincolate a voci fisse non modificabili sempre
più risorse prima destinate dagli atenei a ricerca e didattica. Del resto, la crisi delle università
di impronta neoliberale (corporate university) sta animando un dibattito internazionale
sull'opportunità di agire in base a criteri di valutazione totalmente centrati sul mercato e su
logiche aziendali di breve veduta, proprio per i deficit causati da tale strategia non sul solo
versante culturale e sociale, ma anche sul versante economico e tecnologico.
2. Finanziamento dell’Università e della Ricerca Pubblica
2.1 Rilanciare il sistema universitario per mettere l'Italia al passo con il mondo
L'investimento nella formazione delle nuove generazioni è un parametro vitale per
qualunque Paese voglia progettare in positivo il proprio futuro. Inoltre, anche da un punto di
vista prettamente economico è stato più volte dimostrato (basta guardare per esempio il
rapporto OCSE 2009 [13] o il rapporto di R. Boarini, e H. Strauss del 2007 [14]) che i
finanziamenti destinati alla formazione e alla ricerca sono quelli che hanno un tasso di
rendimento maggiore a medio e lungo termine, dato che permettono di preparare le giovani
generazioni a rafforzare la competitività del proprio Paese. L'università ha anche il compito
di contribuire alla promozione culturale e sociale di tutta la popolazione migliorando così la
qualità delle sue classi dirigenti in tutti gli ambiti (politico, economico, amministrativo). Altri
paesi europei, come, di recente, la Germania e la Francia, hanno ben chiaro il ruolo
fondamentale e di crescente rilevanza che le università svolgono per i cittadini e proteggono
formazione e ricerca anche e soprattutto nei momenti di crisi e di prevedibile cambiamento
economico come quello attuale. Insistere invece su una linea d'intervento che ha come
prima conseguenza catastrofica lo spreco delle risorse pubbliche già investite per la
formazione di giovani attualmente giunti al pieno della loro capacità scientifica ma ancora
precari o costretti all'espatrio, e quindi l'azzeramento dell'humus atto a formare i ricercatori
di domani, denota una totale mancanza di visione prospettica e risulta, dunque, un
comportamento altamente autolesionistico.
Il benessere e le potenzialità di sviluppo di un Paese non sono riconducibili unicamente a
fattori economici e finanziari ma sono strettamente legate all'evoluzione delle conoscenze e
delle tecnologie, cioè alla capacità di sviluppare idee nuove e produrre e diffondere
conoscenza. Le potenzialità di un Paese si misurano pertanto sulla base della qualità dei
giovani formati nelle sue strutture di ricerca e di alta formazione, luoghi paradigmatici per lo
sviluppo delle nuove idee. Per questo gli Stati che mirano a migliorare i propri livelli di
sviluppo culturale, sociale ed economico investono percentuali sempre maggiori del proprio
prodotto interno lordo (PIL) per la formazione e per la ricerca, con l’obiettivo condiviso di
portare tali investimenti fino ad almeno il 3% del PIL entro il 2010. L’Italia, da questo punto
di vista già arretrata rispetto agli altri Paesi, (p.es. rapporto UNESCO Factsheet 2009 [15] e
OCSE Education at a Glance 2009 [13]) non ha mantenuto gli impegni sottoscritti con la già
citata strategia di Lisbona [12], e ha invece ridotto significativamente il finanziamento
pubblico a Università e Ricerca per il quale stanzia ora intorno allo 0,8% del PIL ‐ oltre 0,5
punti percentuali sotto la media europea. Nelle previsioni attuali per il 2011 l'investimento
pubblico italiano, oltre che scendere come valore assoluto, scenderà di circa il 14% rispetto
al PIL, passando dallo 0.5% allo 0,43%. Con un’ulteriore contrazione degli investimenti
(evidenziata anche dalla recente manovra finanziaria) si delinea quindi l’uscita dell’Italia dal
gruppo dei paesi ad economia avanzata.
L’unica strategia possibile per evitare il declino dell’Università italiana – pubblica, basata
sullo stretto rapporto tra didattica e ricerca e aperta nell'accesso ‐ deve partire
dall'allocazione di finanziamenti adeguati e dall'attuazione corretta di una valutazione seria
per quanto riguarda l'operato delle strutture. Questo obiettivo potrebbe essere raggiunto,
come la recente cronaca ha evidenziato, semplicemente con il recupero all'erario delle
somme evase da pochi evasori totali, con le quali si potrebbe addirittura triplicare il
finanziamento annuale della ricerca delle università statali (attualmente dell'ordine annuo di
meno di 100 milioni di Euro).
2.2 Ripristino di un FFO adeguato e realistico
Sulla base di quanto appena detto, appare quindi di cruciale importanza che l’Italia riordini al
più presto le proprie strategie di spesa pubblica per puntare maggiormente sulla formazione
e la ricerca, assi fondanti della nuova economia della conoscenza. E’ quindi urgente
ripristinare un Fondo di Funzionamento Ordinario erogato dallo Stato compatibile con un
funzionamento corretto degli Atenei e, contemporaneamente, stimolare in maniera decisa
le università a interagire maggiormente e più proficuamente con gli enti regionali e locali per
la progettazione di un’offerta formativa attenta alle esigenze dei giovani, pur ribadendo
l’importanza scientifica e formativa delle discipline di base.
Il diritto allo Studio deve poi essere davvero garantito dallo Stato, e non demandato alle
università perché se ne facciano carico. Attualmente, lo Stato viene meno sistematicamente
questo suo dovere costituzionale, obbligando le Università ad accettare a costo zero tutti
quegli studenti che, per ragioni economiche, non hanno modo di pagare le rette
universitarie. Tutti questi studenti così costituiscono per gli Atenei un costo vivo non
compensato da alcun introito. Inoltre non emergono nel dibattito politico‐istituzionale in
corso elementi di sensibilità al problema dei forti squilibri territoriali che incidono sulle
condizioni di accesso e di funzionamento del sistema universitario.
Un'altra questione centrale riguarda il quadro retributivo di chi fa ricerca e didattica,
soprattutto se giovane e all'inizio della carriera. Occorre equiparare le retribuzioni a quelle
delle omologhe figure internazionali sia per una questione di dignità del singolo ma
soprattutto per garantire un funzionamento corretto del sistema a livello locale e a livello
internazionale ‐ due lati della stessa medaglia. Partecipando ai bandi europei di ricerca, per
esempio, i ricercatori italiani si trovano fianco a fianco con colleghi pagati due, tre, persino
quattro volte tanto, pur svolgendo le stesse attività. Rendere se non altro meno inadeguate
le retribuzioni frenerebbe l'emorragia di forze intellettuali che scelgono di andare all'estero,
anzi, costituirebbe finalmente un richiamo per ottimi studiosi stranieri che, oggi, sono
fortemente scoraggiati a venire in Italia dal quadro retributivo particolarmente penalizzante.
Contemporaneamente va anche garantita agli atenei la disponibilità di fondi sufficienti per
portare avanti un'attività di ricerca di qualità, che è deve restare l'attività principale dei
ricercatori.
Appare infine indispensabile che il finanziamento statale delle Università assicuri
quantomeno la copertura dei costi fissi e garantisca anche un livello minimo di fondi di
ricerca, permettendo così alle Università di programmare efficacemente la gestione dei
fondi per il potenziamento della ricerca e della didattica, al riparo dal timore di dover variare
la destinazione delle risorse senza preavviso. Un problema, questo, che mina la capacità
d’investimento e di progettazione strategica nel medio ‐ lungo periodo.
2.3 Ruolo indispensabile della ricerca di base
Il finanziamento della ricerca deve essere slegato da immediate dinamiche economiche ed
occupazionali e in nessun caso può essere finalizzato alla sola ricerca applicata. Storicamente
le Università sono state la sede primaria della ricerca di base. La valorizzazione della ricerca
di base è indispensabile alla nascita di nuove idee, radice e fondamento dell’innovazione.
Essa è fondamentale per garantire quel bagaglio di conoscenze necessario al raggiungimento
di un elevato livello culturale e stimolare anche la crescita di imprese innovative. Solo
studenti preparati a confrontarsi con la ricerca di base su tematiche di frontiera acquisiscono
la preparazione necessaria a svolgere attività di ricerca applicata nelle aziende che li
assumeranno.
La ricerca di base e la ricerca applicata non sono in contrapposizione, ma la seconda ha
necessariamente bisogno della prima come bacino sempre nuovo di idee e di conoscenze e
devono essere quindi entrambe correttamente finanziate.
3. Valutazione dell'Università e della Ricerca Pubblica
Ai ricercatori appare con sempre maggior forza la necessità di attivare un sistema di
valutazione serio e concreto delle Università e del loro operato. La definizione di un quadro
di contesto che permetta di rendere la logica della valutazione operativa e credibile
costituisce una premessa indispensabile all’attivazione di procedure che valorizzino la
qualità scientifica. Non è infatti sensato che mentre si impone un'ulteriore riduzione dei
finanziamenti agli atenei, ormai giunti al collasso, si aspiri ad attivare meccanismi di
valutazione astratti, ignari del contesto impoverito e instabile nel quale gli atenei operano. Il
sistematico sottofinanziamento del sistema non prefigura questo quadro, ma piuttosto un
clima da 'guerra fra poveri', in cui non è affatto detto che sopravvivano i più 'virtuosi' ma
solo gli strateghi migliori.
Al contrario, all’interno di un quadro di funzionamento corretto e regolare del sistema Stato‐
Università, la valutazione di tutti i momenti delle Università (didattica, ricerca,
amministrazione) può e deve diventare il punto di snodo delle politiche nei confronti del
sistema, in base al quale attribuire premi e stimoli alle potenzialità del personale in ruolo e a
contratto nonché, ove fosse necessario, penalizzare le persone e/o strutture
continuativamente al di sotto dei livelli minimi di produttività.
Il processo valutativo non può poi essere introdotto all’improvviso e in maniera acritica, ma
deve essere progettato tenendo presente le profonde differenze esistenti fra atenei e
discipline all'interno del sistema italiano, e la complessità e specificità delle sedi
universitarie. Bisogna prevedere una fase di transizione per mettere tutte le strutture in
condizioni di partire alla pari in un'eventuale competizione. Vanno individuati criteri di
valutazioni specifici dell'università nei suoi diversi aspetti ‐ formativo, innovativo, di ricerca,
divulgativo. Troppo spesso criteri di valutazione presi in prestito rigidamente da altri settori
produttivi (un esempio per tutti: gli studenti laureati in corso) hanno generato effetti
perversi gravissimi sulla qualità del sistema. L'uso della valutazione delle strutture (p.es.
Dipartimenti) deve diventare il metodo prevalente nella distribuzione delle risorse alle
stesse, con eventuale premialità di quote aggiuntive, a fronte di finanziamenti certi, congrui
rispetto agli obiettivi e con possibilità di programmazione almeno triennale. I diversi criteri
valutativi, propri di ciascuna disciplina/area di ricerca e accuratamente ponderati, devono
divenire patrimonio collettivo condiviso e punto di riferimento dell’attività di tutti gli studiosi
italiani.
4. Ricercatori e Professori Universitari ‐ compiti e definizione di carriera
Il problema dei giovani ricercatori deve essere affrontato con investimenti consistenti sia
relativi alla fase pre ruolo (investimenti nei dottorati e nei contratti post‐dottorato) sia nel
reclutamento, con lo sblocco del turn‐over, con un reclutamento straordinario che permetta
di colmare il vuoto dei pensionamenti consistenti nei prossimi anni e con la promozione (non
l'obbligo) della mobilità fra sedi. La carriera tipica dovrebbe prevedere una fase di
formazione (dottorato), un contratto di lavoro triennale rinnovabile come ricercatore
(tenure track) con programmazione di posti e stanziamenti trasparente e pubblica, l'ingresso
al primo livello del ruolo unico dei professori universitari a tempo indeterminato in cui
rientrano tutte le attuali figure strutturate.
4.1 Percorsi pre‐ruolo
Premessa indispensabile e vitale alla messa in opera del ruolo unico proposto dai ricercatori
è la razionalizzazione dei percorsi pre‐ruolo. Per l'assenza di risorse, il blocco dei concorsi e
del turn over, l'esperienza degli assegni di ricerca si è rivelata fallimentare oltre che
umiliante prolungamento di una condizione lavorativa incerta. In caso di assunzione,
l'assegno di ricerca non e' neppure riconosciuto da tutti gli atenei italiani in modo uniforme
come periodo di servizio presso l'università italiana ai fini della ricostruzione di carriera. Per
evitare la dispersione dei giovani ricercatori e attrarre nuove risorse, si auspica l’istituzione
di un’unica figura pre‐ruolo esplicitamente legata a percorsi certi (tenure track), con
l’allocazione delle risorse specifiche per la progressione di carriera all’atto dell’assunzione.
Un'analisi comparata dei sistemi in vigore in altri paesi e del percorso dell'università italiana
suggerisce:
1. la creazione di un primo livello di post‐doc equivalente a un contratto da ricercatore
a tempo determinato (RTD) per una durata non superiore ai tre anni, con
valutazione finale sull’attività di ricerca;
2. la creazione di un secondo livello di post‐doc equivalente a un contratto da RTD
(sempre di durata non superiore ai tre anni) legato alla tenure track, che preveda
cioè il contemporaneo accantonamento, da parte dell’Ateneo, di punti organico e
risorse finanziarie ai fini dell’apertura di un bando per accedere al livello di entrata
della figura di Professore contemplata nel ruolo unico, nello stesso settore
scientifico‐disciplinare (SSD);
3. la sostituzione con contratti da RTD dell’attuale selva di contratti atipici (assegni di
ricerca, borse di studio, co.co.co, co.co.pro. ecc.); il contratto RTD sarebbe così
l'unico contratto di ricerca post‐doc;
4. l'utilizzazione di borse di studio solo all’interno di cicli di formazione riconosciuti
(lauree 3+2, dottorati, master, summer school, ecc.).
5. la possibilità che la posizione di RTD possa prevedere lo svolgimento di attività
didattica sulla base di un contratto nazionale. La didattica non può comunque
costituire un ostacolo all’attività di ricerca e deve essere vincolata ad un limite orario
annuale;
6. la possibilità che i titolari di RTD possano costituire “unità locali” dei PRIN,
compatibilmente con la durata della loro permanenza in servizio. L’istituzione di un
fondo di ricerca nazionale a cui possono accedere gli RTD, che consenta anche di
richiedere somme limitate e con cadenza annuale.
4.2 Una professione fondata sul binomio ricerca e didattica: il nuovo ruolo unico
Nel quadro di una riorganizzazione del sistema della docenza appare in questo momento
prioritaria una riorganizzazione degli attuali due ruoli (ricercatore universitario e professore
universitario) in un ruolo unico della docenza, articolato su differenti livelli retributivi, con
adeguata rivalutazione stipendiale per gli eventuali oneri aggiuntivi rispetto alla situazione
vigente in funzione di nuove e/o diverse mansioni spettanti ai vari livelli. Per rendere il ruolo
unico operativo e fruttuoso, appare necessario:
1. distribuire i compiti didattici e di ricerca in modo da consentire il massimo impegno
nella ricerca ai livelli iniziali della carriera, con un progressivo aumento degli impegni
di docenza. Deve poi essere garantito il collegamento fra ricerca e didattica, con un
carico di studenti commisurato allo stadio della carriera.
2. ribadire una netta separazione nell'allocazione delle risorse tra reclutamento e
progressione di carriera. Nella fase attuale, per rendere credibile e sostenibile lo
sforzo di riqualificazione e rinnovamento dell'Università, è necessario finanziare nel
prossimo quinquennio un reclutamento straordinario finalizzato alla compensazione
dei numerosi pensionamenti e al raggiungimento della media europea nel rapporto
studenti/docenti e numero di ricercatori rispetto alla popolazione, parametri per i
quali l’Italia è nelle ultime posizioni nelle classifiche OCSE.
3. prevedere un numero adeguato di "progressioni di carriera" (tramite valutazione
individuale) all'interno del nuovo ruolo unico in modo da poter sostenere l'offerta
didattica senza affossare l'attività scientifica. Ciò permette di attuare
l'inquadramento dei ricercatori meritevoli, valutati secondo i criteri della comunità
scientifica e non dell'opportunità economica in un livello retributivo corrispondente
all'esperienza didattica e scientifica già acquisita. Su opzione, agli attuali RTI viene
riconosciuto il nuovo ruolo docente, con impegno didattico commisurato
(ipotizzabile, per esempio, in metà di quanto previsto per gli attuali professori) e con
la previsione del relativo incremento salariale, fatti salvi i diritti già maturati in
materia di retribuzione. Resta salva la facoltà per il docente di accettare incarichi
didattici aggiuntivi oggetto di specifici contratti.
4. incaricare della valutazione del nuovo docente unico una commissione sorteggiata
all'interno dell'intera comunità scientifica, che prenderà atto della relazione
sull'attività del singolo docente effettuata dal suo dipartimento di afferenza.
5. mantenere al CUN la funzione disciplinare, che non può essere espletata
serenamente all'interno dei singoli atenei.
Per la valutazione di ingresso in ruolo (reclutamento) si propone un metodo in due fasi:
1. idoneità nazionale a periodicità nota (biennale), aperta, basata su valutazioni del
curriculum su parametri standard definiti per area, e discussione dei titoli e delle
pubblicazioni con commissioni estratte a sorte e meccanismo di rotazione;
2. scelta della sede sulla base di un meccanismo adeguato a garantire il miglior
inserimento dell'idoneo nella struttura di destinazione sulla base delle specifiche
competenze e interessi di ricerca. Il meccanismo potrebbe prevedere un seminario
pubblico degli idonei aspiranti alla posizione vacante e la valutazione di un progetto
di ricerca del candidato da sviluppare nella sede di destinazione. Analoghi
meccanismi possono essere previsti per trasferimenti di personale non legate
all'ingresso in ruolo o a progressioni di carriera.
Il numero dei posti messi a bando annualmente a livello nazionale deve essere legato alla
programmazione ufficiale delle diverse sedi universitarie. Si può prevedere anche una
percentuale di posti liberi che permetterebbe l'ingresso in ruolo di competenze non
contemplate nei bandi richiesti dagli atenei. Le candidature per questa tipologia di posti
sono da valutare con le stesse modalità indicate sopra ovvero con modalità di chiamata
diretta per studiosi di chiara fama.
I criteri di valutazione per l'ingresso nel ruolo unico sulle linee indicate più sopra
permetterebbero di garantire da un lato il livello dei candidati mediante valutazione
indipendente della loro qualità e dall'altro una più efficace integrazione dei nuovi assunti
nelle strutture di destinazione grazie all'approvazione condivisa di un progetto di ricerca che
quindi impegna entrambi.
Le valutazioni successive interne al ruolo unico (progressioni) dovrebbero essere anch'esse a
periodicità nota (biennale o triennale), a domanda dell'interessato, su titoli e pubblicazioni e,
eventualmente, un seminario scientifico. Le commissioni per la valutazioni nazionali
(idoneità e avanzamenti) devono essere stabilite per sorteggio e a rotazione tra i docenti del
settore attivi nella ricerca.
Conseguenza dell'introduzione del ruolo unico della docenza è l'equiparazione, al suo
interno, degli attuali professori e ricercatori in materia di prepensionamento, con la
prospettiva di adeguare l’età pensionabile dei docenti in analogia alle strategie
internazionali.
In sintesi i ricercatori della Rete29Aprile propongono, anziché la messa ad esaurimento dei
ricercatori universitari a tempo indeterminato, il rilancio di questa figura professionale,
come figura a tempo indeterminato che integra le funzioni prioritarie di ricerca e di
didattica. In questo senso si intende superare sia il vuoto di definizione del ruolo di
ricercatore, sia la precarizzazione della fase decisiva della costruzione della carriera
scientifico‐accademica.
Ulteriore conseguenza dell’istituzione del ruolo unico è l'eliminazione delle distinzioni
gerarchiche esistenti oggi tra professori e ricercatori. Il nuovo Docente siederà, se eletto,
nelle commissioni di concorso e negli organi di governo dell’Università.
Fonti citate
[1] Legge 133/08: http://www.normattiva.it/uri‐res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2008;133
[2] Legge 1/09: http://www.normattiva.it/uri‐res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2009;1
[3] Rendiconto 222a seduta VII comm. del Senato:
http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/frame.jsp?tipodoc=SommComm&leg=16&id=4888
06
[4] Malata e denigrata. L'università italiana a confronto con l'Europa, Marino Regini, Donzelli
editore, 2009, ISBN‐13: 9788860363503
[5] The scientific impact of nations, David A. King, Nature 430, 311 (2004)
[6] I ricercatori non crescono sugli alberi, Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi, Laterza
editore, 2009, ISBN‐13: 9788842091936
[7] http://www.cnvsu.it
[8] DdL 1905S: http://www.senato.it/leg/16/BGT/Schede/Ddliter/34595.htm
[9] Processo di Bologna: http://www.bolognaprocess.it/
[10] Decreto del Presidente della Repubblica 382/80:
http://www.edscuola.it/archivio/norme/decreti/dpr382_80.html
[11] Legge 230/05: http://www.normattiva.it/uri‐res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:2005;230
[12] http://europa.eu/lisbon_treaty/index_en.htm
[13]OECD Education at a glance 2009:
http://www.oecd.org/document/62/0,3343,en_2649_39263238_43586328_1_1_1_1,00.ht
ml
[14] The Private Internal Rates of Return to Tertiary Education: New Estimates for 21 OECD
Countries, OECD Economics Department, Working Papers, No. 591, OECD Publishing,
http://www.olis.oecd.org/olis/2007doc.nsf/linkto/eco‐wkp(2007)51
[15] Unesco Factsheet 2009:
http://www.uis.unesco.org/template/pdf/S&T/Factsheet_No2_ST_2009_EN.pdf