lunedì 21 giugno 2010
Il significato di una protesta condivisa
di Annalisa Monaco (membro del Direttivo Nazionale del CNRU)
In questi giorni, in numerosi Consigli di Facoltà di parecchi atenei, si stanno discutendo mozioni nelle quali si sottolinea il forte appoggio dei professori alla protesta dei ricercatori, invitando tra l’altro ad una condivisione delle motivazioni e ad una diretta partecipazione. In molti casi tali mozioni sono state approvate all’unanimità mostrando una profonda sintonia tra le componenti riguardo al dibattito in corso sul DDL 1905 attualmente in discussione al Senato.
Dal punto di vista dei ricercatori ciò non può che far piacere, soprattutto laddove si noti lo sforzo nel mantenere un atteggiamento costruttivo e propositivo nei confronti della nostra categoria. Su questa linea non deve sfuggire ai ricercatori l’atto formale di cancellare dagli elenchi dei corsi di studio i nomi dei ricercatori “indisponibili”. Questo punto è stato spesso oggetto di dibattito ed ha riscontrato spesso una diversità di atteggiamento tra Facoltà e Facoltà anche all’interno degli stessi atenei. Esso pur non modificando sostanzialmente la posizione reciproca tra ricercatori e istituzioni, ha talvolta messo in allarme alcuni ricercatori preoccupati che l’esito della protesta avesse conseguente tangibili e visibili, soprattutto all’esterno. In effetti non sempre si è riscontrato un atteggiamento limpido nei comportamenti di talune Presidenze e ciò ha rischiato di influire negativamente sulla determinazione dei ricercatori a portare avanti la protesta. Per fortuna questo pericolo ci pare mediamente scongiurato, come testimoniato dalla quantità di indisponibilità presentate nella stragrande maggioranza degli atenei.
Ciò detto non dobbiamo nasconderci le difficoltà che si incontrano, fuori dalla solidarietà formale, nel momento in cui altre categorie – mi riferisco specificamente ad associati ed ordinari – intervengono nella discussione di problemi specifici attinenti alla posizione dei ricercatori nell’ambito della riforma Gelmini, e della manovra Tremonti.
Ho sottolineato più volte un pericolo sostanziale, portato da un pensiero scorretto che, ignorando i motivi della protesta dei ricercatori, attribuisce a noi la causa dei problemi didattici e organizzativi conseguenti alla protesta stessa. In questo modo si considera ciò che è un effetto come causa e, in tal maniera, si nega alla reale causa il nesso nei confronti dell’effetto. In altre parole è ora di smetterla di dire: “I ricercatori mettono in ginocchio gli atenei” oppure “I ricercatori vogliono spremere qualcosa o qualcuno”.
Dal momento che ho già discusso, altre volte, questo argomento, scardinando i presupposti sbagliati su cui si fonda, vorrei ampliare l’ottica cercando di puntualizzare gli interessi rappresentati dalla protesta dei ricercatori e comuni a tutte le categorie.
Forse non si è compreso che l’offerta formativa passata, alla quale hanno contribuito, di necessità, i ricercatori, è la base per il finanziamento dell’Ateneo, base sulla quale possono essere costruiti gli organici, in termini di personale docente e non docente, le strutture ed anche, ultimo ma non ultimo, gli stipendi. Nel particolare, ciò significa che l’attività didattica dei ricercatori ha contribuito e contribuisce tuttora, non poco, a mantenere gli standard economici delle altre categorie di lavoratori assunti nell’ateneo.
Il problema perciò non è puramente speculativo o emotivo, ma riguarda la sostanza economica di tutti. Ciò che i ricercatori, quindi, nella loro protesta perseguono, è un duplice obiettivo: da una parte la critica al DDL Gelmini sulla riforma universitaria che appare soprattutto un’azione per far quadrare bilanci degli atenei e dall’altra il riconoscimento del proprio ruolo e del lavoro svolto negli anni passati per ottenere uno stato giuridico atteso da decenni.
In questo senso nessun ricercatore mette in ginocchio gli atenei. I ricercatori spingono le altre categorie e gli atenei stessi verso una presa di coscienza della necessaria azione di opposizione alle regole finora dominanti ed alle nuove regole che stanno per essere scritte, ma che non modificano le precedenti in meglio.
La solidarietà, quindi, richiesta alle altre categorie deve essere compresa nella sua profonda essenza, cioè il fatto che le altre categorie vivono, in buona parte, grazie all’assunzione di oneri, non dovuti, da parte dei ricercatori. Ed è ora che questo sia ben chiaro e scritto a caratteri cubitali nelle menti degli appartenenti a tutte le categorie universitarie.
Infatti, l’atteggiamento di chi pensa si possa fare a meno dei ricercatori attestandosi su quantità formative inferiori, seppure di eccellenza, si scontrerà con i trasferimenti economici dallo stato che servono a pagare gli stipendi per circa il 90% dell’importo e che, con le offerte formative, comprensive del lavoro didattico dei ricercatori, hanno in gran parte a che fare per la loro quantità: ciò significa minor offerta formativa, minor numero di studenti, minor trasferimento economico (FFO), riduzione degli stipendi, del personale o di entrambi. E questa è la seconda cosa che dovrebbe essere chiara e lampante.
Ciò detto si ritorni con la mente alla protesta dei ricercatori la quale è un mezzo, probabilmente in questi anni è apparso l’unico, per arrivare a farsi sentire dai vertici, ma non è un fine, ovvero quello di indebolire gli atenei.
La confusione, fatta da alcuni, tra mezzo e fine proprio in questo senso va letta. Se mezzo è, è un mezzo che riguarda gli interessi di tutti quelli che lavorano nell’università, perché offerta formativa e FFO riguardano tutti. Ci si aspetterebbe, per questo, che tutti condividessero il mezzo per ottenere quel risultato. In tal modo non ci sarebbe contrapposizione tra ricercatori e associati o ordinari. Infatti, con chi ha compreso che la protesta dei ricercatori è un mezzo c’è intento comune.
Peraltro, laddove la consapevolezza di quanto sopra detto è maggiore, si è compreso che l’azione dei ricercatori non è semplicemente una “lotta di classe” o di categoria e sono state proposte o intraprese forti azioni comuni quali blocco di sessioni di esami, di tesi e via di questo passo. Vorrei far presente come queste azioni, in tutta Italia, non abbiano e non debbano avere una connotazione di schieramento politico. Cercare di mettere un “cappello” alla protesta finirebbe inevitabilmente per farla scadere a mero tentativo di strumentalizzare la crisi del sistema universitario e l’insoddisfazione dei ricercatori a fini di lotta politica.
E proprio questa neutralità mostra l’importanza della posta in gioco che non è semplicemente e soltanto il ricercatore ma è proprio, attraverso il ricercatore, il senso dell’Università pubblica.
In questi giorni, in numerosi Consigli di Facoltà di parecchi atenei, si stanno discutendo mozioni nelle quali si sottolinea il forte appoggio dei professori alla protesta dei ricercatori, invitando tra l’altro ad una condivisione delle motivazioni e ad una diretta partecipazione. In molti casi tali mozioni sono state approvate all’unanimità mostrando una profonda sintonia tra le componenti riguardo al dibattito in corso sul DDL 1905 attualmente in discussione al Senato.
Dal punto di vista dei ricercatori ciò non può che far piacere, soprattutto laddove si noti lo sforzo nel mantenere un atteggiamento costruttivo e propositivo nei confronti della nostra categoria. Su questa linea non deve sfuggire ai ricercatori l’atto formale di cancellare dagli elenchi dei corsi di studio i nomi dei ricercatori “indisponibili”. Questo punto è stato spesso oggetto di dibattito ed ha riscontrato spesso una diversità di atteggiamento tra Facoltà e Facoltà anche all’interno degli stessi atenei. Esso pur non modificando sostanzialmente la posizione reciproca tra ricercatori e istituzioni, ha talvolta messo in allarme alcuni ricercatori preoccupati che l’esito della protesta avesse conseguente tangibili e visibili, soprattutto all’esterno. In effetti non sempre si è riscontrato un atteggiamento limpido nei comportamenti di talune Presidenze e ciò ha rischiato di influire negativamente sulla determinazione dei ricercatori a portare avanti la protesta. Per fortuna questo pericolo ci pare mediamente scongiurato, come testimoniato dalla quantità di indisponibilità presentate nella stragrande maggioranza degli atenei.
Ciò detto non dobbiamo nasconderci le difficoltà che si incontrano, fuori dalla solidarietà formale, nel momento in cui altre categorie – mi riferisco specificamente ad associati ed ordinari – intervengono nella discussione di problemi specifici attinenti alla posizione dei ricercatori nell’ambito della riforma Gelmini, e della manovra Tremonti.
Ho sottolineato più volte un pericolo sostanziale, portato da un pensiero scorretto che, ignorando i motivi della protesta dei ricercatori, attribuisce a noi la causa dei problemi didattici e organizzativi conseguenti alla protesta stessa. In questo modo si considera ciò che è un effetto come causa e, in tal maniera, si nega alla reale causa il nesso nei confronti dell’effetto. In altre parole è ora di smetterla di dire: “I ricercatori mettono in ginocchio gli atenei” oppure “I ricercatori vogliono spremere qualcosa o qualcuno”.
Dal momento che ho già discusso, altre volte, questo argomento, scardinando i presupposti sbagliati su cui si fonda, vorrei ampliare l’ottica cercando di puntualizzare gli interessi rappresentati dalla protesta dei ricercatori e comuni a tutte le categorie.
Forse non si è compreso che l’offerta formativa passata, alla quale hanno contribuito, di necessità, i ricercatori, è la base per il finanziamento dell’Ateneo, base sulla quale possono essere costruiti gli organici, in termini di personale docente e non docente, le strutture ed anche, ultimo ma non ultimo, gli stipendi. Nel particolare, ciò significa che l’attività didattica dei ricercatori ha contribuito e contribuisce tuttora, non poco, a mantenere gli standard economici delle altre categorie di lavoratori assunti nell’ateneo.
Il problema perciò non è puramente speculativo o emotivo, ma riguarda la sostanza economica di tutti. Ciò che i ricercatori, quindi, nella loro protesta perseguono, è un duplice obiettivo: da una parte la critica al DDL Gelmini sulla riforma universitaria che appare soprattutto un’azione per far quadrare bilanci degli atenei e dall’altra il riconoscimento del proprio ruolo e del lavoro svolto negli anni passati per ottenere uno stato giuridico atteso da decenni.
In questo senso nessun ricercatore mette in ginocchio gli atenei. I ricercatori spingono le altre categorie e gli atenei stessi verso una presa di coscienza della necessaria azione di opposizione alle regole finora dominanti ed alle nuove regole che stanno per essere scritte, ma che non modificano le precedenti in meglio.
La solidarietà, quindi, richiesta alle altre categorie deve essere compresa nella sua profonda essenza, cioè il fatto che le altre categorie vivono, in buona parte, grazie all’assunzione di oneri, non dovuti, da parte dei ricercatori. Ed è ora che questo sia ben chiaro e scritto a caratteri cubitali nelle menti degli appartenenti a tutte le categorie universitarie.
Infatti, l’atteggiamento di chi pensa si possa fare a meno dei ricercatori attestandosi su quantità formative inferiori, seppure di eccellenza, si scontrerà con i trasferimenti economici dallo stato che servono a pagare gli stipendi per circa il 90% dell’importo e che, con le offerte formative, comprensive del lavoro didattico dei ricercatori, hanno in gran parte a che fare per la loro quantità: ciò significa minor offerta formativa, minor numero di studenti, minor trasferimento economico (FFO), riduzione degli stipendi, del personale o di entrambi. E questa è la seconda cosa che dovrebbe essere chiara e lampante.
Ciò detto si ritorni con la mente alla protesta dei ricercatori la quale è un mezzo, probabilmente in questi anni è apparso l’unico, per arrivare a farsi sentire dai vertici, ma non è un fine, ovvero quello di indebolire gli atenei.
La confusione, fatta da alcuni, tra mezzo e fine proprio in questo senso va letta. Se mezzo è, è un mezzo che riguarda gli interessi di tutti quelli che lavorano nell’università, perché offerta formativa e FFO riguardano tutti. Ci si aspetterebbe, per questo, che tutti condividessero il mezzo per ottenere quel risultato. In tal modo non ci sarebbe contrapposizione tra ricercatori e associati o ordinari. Infatti, con chi ha compreso che la protesta dei ricercatori è un mezzo c’è intento comune.
Peraltro, laddove la consapevolezza di quanto sopra detto è maggiore, si è compreso che l’azione dei ricercatori non è semplicemente una “lotta di classe” o di categoria e sono state proposte o intraprese forti azioni comuni quali blocco di sessioni di esami, di tesi e via di questo passo. Vorrei far presente come queste azioni, in tutta Italia, non abbiano e non debbano avere una connotazione di schieramento politico. Cercare di mettere un “cappello” alla protesta finirebbe inevitabilmente per farla scadere a mero tentativo di strumentalizzare la crisi del sistema universitario e l’insoddisfazione dei ricercatori a fini di lotta politica.
E proprio questa neutralità mostra l’importanza della posta in gioco che non è semplicemente e soltanto il ricercatore ma è proprio, attraverso il ricercatore, il senso dell’Università pubblica.