venerdì 7 gennaio 2011
Car* tutt*,
Vi inoltro l'estratto di una bellissima lettera di Massimiliano Tabusi (rete 29 aprile, il ricercatore ricevuto da Napolitano, insieme agli studenti, qualche settimana fa) su temi e questioni su cui dovremmo riflettere urgentemente tutt* insieme prima possibile......
--------------
Non abbiamo altra scelta che individuare i percorsi in queste ore. Moltissimi presidi bussano già il 10 alle porte, nostre e, ancor più importante, di migliaia di colleghe e colleghi che non hanno la nostra assiduità con questi temi ed attendono da noi una linea.
Questo è uno dei punti importanti. Ci sono moltissim* che ci sono stati a guardare e che vogliono sapere oggi cosa proponiamo. Ragionare in termini “ora sento i colleghi cosa vogliono fare e poi ne parliamo” è semplicemente un non senso. Dobbiamo essere noi a fare proposte, spiegarne gli obiettivi e le motivazioni con tutta la capacità di cui disponiamo e poi registrare se queste proposte hanno seguito oppure no.
Dove siamo
E’ già stato detto ma mi piace ripeterlo: se il signor Scilipoti e il signor Calearo non avessero cambiato casacca per quattro soldi o per qualche poltrona, oggi il ddl Gelmini sarebbe una cosa dimenticata. E il merito sarebbe stato tutto nostro, per aver tenuto duro e aver creato un fronte compatto, su dei contenuti, con studenti e anche altre con altre componenti che si stanno maggiormente strutturando (penso a cpu e conpass).
Il DDL è invece passato di corsa, zoppo, con degli errori e delle “criticità”. Tutta l’Italia lo sa e ne ha sentito parlare, ancora una volta per merito dello schieramento di cui sopra, che ha ottenuto una (minima ma importante) sponda dal presidente della Repubblica, che presto sarà impegnato in un difficile passaggio di scioglimento delle camere sì/no e non ha voluto essere preventivamente oggetto di attacco in quanto “comunista” non firmando il DDL. Questione di scelte, di priorità. Qualcuno dirà di coraggio, lo so.
Dove andiamo
Il DDL è uno spot pre-elettorale del governo attuale, che si vanterà tra marzo e maggio (periodo di probabile voto) del grande risultato raggiunto. Però le università non funzioneranno in quel periodo se non saremo noi a tenerle in piedi. Volontariamente e contro i nostri interessi. Sì, perché anche con la legge vigente, chi fa lezione è il principale avversario di sé stesso: copre un posto di associato e le Università non ci penseranno neppure lontanamente a bandirlo (per chi fosse interessato: diventare associati con questa legge non darà una lira di più, né peso politico alcuno negli atenei, ma solo maggiori obblighi. Questa è un’altra storia, sulla quale, però, presto o tardi occorrerà tornare), neppure ci fossero soldi – e non ci sono.
Si dice che siamo in grave difficoltà perché, se non li teniamo noi, molti “nostri” corsi potrebbero chiudere, causa DM 17. Ecco, questo dà l’occasione di entrare veramente nel problema. Occorre assolutamente intendersi sul momento in cui ci troviamo. È uno spartiacque: noi possiamo essere convinti che:
A) Attualmente l’Università ha qualche difficoltà perché ci sono normative bislacche alle quali è un po’ difficile adattarsi; niente che non sia successo in passato, comunque volendo un adattamento si trova, stiracchiando e spingendo qua e là.
B) L’Università come servizio pubblico (e come tanti altre componenti dell’idea stessa di “pubblico”) è sotto un attacco senza precedenti, ed è assediata da un complesso di normative che tendono ad escludere una larga parte della popolazione tanto dalla possibilità di ottenere una formazione superiore a costi ragionevoli, quanto dalla possibilità di svolgere una “missione” di ricerca e docenza, a meno che non si sia già appartenenti ad uno strato sociale assai benestante. Non so voi, ma io non avrei mai potuto fare questo mestiere, che adoro, se invece di avere una borsa di dottorato – misera, d’accordo – avessi dovuto pagare io per tre anni, come avviene con questa legge. Questo è un chiaro filtro che “smista” preventivamente i possibili docenti universitari.
La nostra reazione dipende dalla nostra percezione. Se è di tipo A), allora facciamo benissimo a tornare ad insegnare, risolvendo così ogni problema concreto dapprima ai nostri presidi, i quali pensano mediamente solo al personale quieto vivere e ad applicare – spesso ancor prima che siano in vigore – qualsiasi capriccio del ministro di turno. Gente che, se domani arrivasse un DM 18 nel quale si dice che, per risparmiare, non potranno iscriversi ai corsi quelli che hanno un numero di piede superiore al 40, un secondo dopo starebbe lì a farci la predica su quanto sia necessario garantire il diritto allo studio di chi porta 39, 38, 37 o 36. Io, personalmente, credo che queste persone siano state e siano ancora la rovina dell’Università, perché non hanno mai usato il loro intelletto (e sì che alcun* si definiscono intellettuali!) per ragionare criticamente delle cose che loro stess* andavano facendo.
Se è di tipo B), significa che noi, per circostanze legate ai fatti della storia, siamo gli/le unici/uniche che abbiamo davvero l’opportunità di frapporci ad un disegno così distruttivo. Questo perché, semplicemente, ci basta rispettare la legge per mettere in crisi il sistema, per mostrare che “il re è nudo”, che ciò che stanno costruendo non funziona minimamente, se non perpetuando un sistema di ricatto e di sfruttamento, sempre più grave. C’è un unico modo in cui può funzionare: sulle nostre spalle. Se siamo convinti del tipo B), prestarsi a questo gioco significa rendersi consapevolmente complici di un disegno che comporterà un cambiamento feroce della intera società italiana da qui a qualche anno. Lo ha detto il ministro stesso, dopo l’approvazione: “così finisce il finto egualitarismo post sessantottino”. Studierà chi ha i soldi; insegnerà chi potrà permettersi di pagare per lavorare (il dottorato come pre-investimento) e di fare almeno otto anni di precariato subito dopo. Ovvero, insegneranno nelle nostre università i figli idioti dei più facoltosi. Perché a quelli intelligenti gli farebbero certamente fare altro, più redditizio. Pensate per un momento a che effetto sociale può comportare, nei prossimi decenni, avere insegnanti così nelle nostre università…
Se la nostra percezione è di tipo B), non possiamo intanto che trarne una prima conclusione: dobbiamo ribadire con forza la nostra indisponibilità, e convincere i colleghi che è una cosa importantissima. Che si può fare oggi o non si potrà fare mai più. Che, per il lavoro fatto in questi mesi da tutti noi, oggi se si dice che si è ricercatori/trici ad un barbiere, ad un tassista, ad un operaio, si riceve finalmente rispetto, e non il disprezzo generico dedicato agli universitari. Che l’indisponibilità è un concetto che ha fatto breccia anche in altri contesti: che essere indisponibili significa anzitutto non voler (più) assecondare comportamenti immorali e disegni distruttivi.
D’accordo sul B), ma poi?
Adesso do per scontato che siamo d’accordo sulla percezione B. Allora spunta la domanda: ormai cosa possiamo farci, visto che la legge è passata? Come dicevo la legge è passata ma già è malconcia. Avrebbe bisogno di almeno un anno e mezzo per entrare in funzione (anche se i rettori correranno, per quanto gli compete, ad approfittare subito dei vantaggio loro riservati da questo “saldo di fine stagione”). Ci sono fortissime probabilità che quest’anno si voti, prima dell’estate. Chi governa non vuole altro che uno spot. Il DM 17 è stato accelerato esattamente per questo motivo. Biecamente e solamente per avere qualche cifra sui tanti corsi tagliati, da sbandierare in campagna elettorale. Ma, attenzione: come si fa a chiudere molti corsi, mentre ci sono studenti che hanno quei corsi nel proprio curricolo? È sostenibile il DM 17? È sostenibile trasformare moltissimi corsi in numeri chiusi? È sostenibile far sparire sotto il naso dei corsi agli studenti che ce l’hanno nei piani di studio, e metterli in 5 o 600 in un’aula a seguire un corso diverso che magari non gli interessa? E con che docente? Tutto questo noi dobbiamo dirlo in modo alto e forte e attuare strategie specifiche (ci torno tra poco). Dobbiamo lavorare con gli studenti che presto saranno inferociti dal “combinato disposto” DDL Gelmini + tagli feroci ai corsi. Il DM 17, se applicato come vuole il ministro, semplicemente non è sostenibile e gli esploderà in mano. Se siamo d’accordo sulla percezione B), non possiamo pensare a prestarci all’applicazione di qualsiasi follia passi per la testa di un ministro. Su questo dobbiamo fare una battaglia dentro gli atenei, affinché a protestare siano anche presidi e rettori, e ovviamente gli studenti. Se non lo fanno, saranno corresponsabili. Non dobbiamo mollare la pressione su di loro.
Con le indisponibilità possiamo far sì che a marzo/aprile si capisca che questa legge non va bene, perché non risolve nulla e anzi blocca le università. L’università come l’Alitalia, come la monnezza napoletana, come L’Aquila. Finte soluzioni che non risolvono nulla, ma che, anzi, aggravano i problemi. Quando questa crisi si verificherà sarà chiarissimo a tutti che questa legge va superata, e che noi siamo parte della soluzione e non del problema. E avremo voce in capitolo per risolverlo, questo problema. Nessuno potrà accusarci di nulla: è appena stata fatta una legge di sistema, ed il sistema non funziona. Noi lo diciamo da mesi; abbiamo avvertito tutti, dai bidelli al presidente della Repubblica, dai giornali alla televisione. Ampiamente per tempo. E gli studenti ci hanno ripetutamente chiesto di mantenere le nostre indisponibilità. Ritirando in massa le indisponibilità, anche se si trattasse di una strategia, perderemmo faccia e dignità agli occhi degli studenti e di tutta la società. Sono valori acquisiti, e a caro prezzo. Pensiamoci bene prima di gettarli al vento.
Solo indisponibilità? E come facciamo a pesare negli atenei?
Questo è un problema importante. Vi faccio una proposta che è mia PERSONALE. Però va fatta una premessa. Le nostre azioni di protesta, a mio avviso, devono essere motivate verso l’opinione pubblica anche come effetti diretti della legge. Non vi piace quel che facciamo? Prendetevela col ministro. Dunque:
indisponibilità = sapete com’è, la legge ci mette definitivamente fuori ruolo, dunque ci impone di ottenere una abilitazione se vogliamo “salvarci”. A noi la legge pare completamente sbagliata e distruttiva (non torno sui motivi), ma ci adeguiamo e quindi non possiamo far altro che metterci da subito a fare solo ricerca in modo da avere i titoli che la riforma stessa giudica necessari per l’abilitazione. Sbagliano, ma ce lo impongono “loro”!
Sabbatico (ma attenzione, leggere fino in fondo anche il prossimo paragrafo) = pochi sanno che, per motivi di studio e ricerca, è previsto dalla normativa attuale che ricercatori e ricercatrici possano usufruire, in ragione di un anno ogni due, di un “congedo retribuito per motivi di studio e ricerca”. Ovvero sabbatico. Pochissimi, nell’opinione pubblica, sanno che fino ad ora non lo abbiamo mai sfruttato. Propongo di chiedere IN MASSA alle nostre facoltà di usufruire per il prossimo AA (2011-2012) di un anno dedicato allo studio e alla produzione scientifica. E’ – di nuovo – la legge che ce lo impone! Attenzione, se si è in sabbatico si può comunque partecipare a tutti i consigli, quindi alla vita dell’Ateneo. NON E’ UN AVENTINO!
Qualcuno dirà che il sabbatico non ci verrà concesso, perché la facoltà deve dare un parere. Possibile, ma il parere deve essere motivato. E mentre ad un associato possono dirgli di no perché è tenuto a fare lezione, a noi cosa possono dire? E’ vero o no che l’unico modo per salvarci dall’oblio per tutto il resto della nostra carriera è acquisire l’abilitazione? E’ vero o no che dipende da una legge dello stato? Ci sarebbero fisiologicamente Università che lo concedono; come fanno le altre a dire di no? Faremmo un can can nazionale che metterebbe in grave difficoltà chi volesse bloccare le nostre iniziative. Attenzione, però: la mia proposta di richiesta in massa di sabbatico ha due scopi: 1) riaccendere l’attenzione dell’opinione pubblica su un fenomeno eclatante, tornando a parlare degli errori della legge; 2) disporre di un’arma cui ci diremo da subito disposti a rinunciare se all’interno degli atenei ci daranno voce in capitolo sugli statuti e sposeranno la protesta nazionale senza rompere troppo sulle indisponibilità di quest’anno. In mancanza di un’arma del genere, cui ci diciamo disposti a rinunciare, per contare negli statuti dovremmo invece rinunciare all’indisponibilità di quest’anno, cosa che sarebbe suicida.
Altre stategie
Ci sono molte cose da fare DENTRO le Università nel prossimo futuro. Oltre agli statuti, ci saranno anche tutti i passaggi di adeguamento, per esempio per il DM 17. Non sono d’accordo sull’uscita dagli organi democratici; penso invece ad una strategia “partigiana” di “guerriglia”, combattendo punto su punto (casa per casa!) e facendo da guastatori ogni volta che si vuole imporre qualcosa che non va bene per quell’Università Libera, Pubblica e Aperta che è nel nostro stesso simbolo. Siamo in grado di far mancare il numero legale a molti consigli di corso di laurea, per esempio, ed anche nei dipartimenti, dove siamo sicuramente. Siamo in grado di portare in discussione alcuni temi nei consigli di facoltà (dove siamo tutti presenti o come rappresentanti), nei senati accademici e nei CdA. Sempre dobbiamo – a mio avviso – chiedere a tutte le componenti di agire assieme, segnalando che non stiamo lottando contro di loro o contro l’ateneo, ma a vantaggio di un sistema universitario nazionale aperto ed inclusivo. Laddove ci faranno apertamente la guerra, nonostante gli si sia proposta una alleanza per questi alti scopi, possiamo segnalare sistematicamente alla Corte dei Conti (cosa di cui le alte sfere hanno un sacro terrore) tutti gli arbitri e le spese ingiustificate che negli atenei purtroppo ci sono a iosa. Dobbiamo istituire una sorta di “osservatorio nazionale” sulle migliori pratiche statutarie possibili – per ricercatrici e ricercatori ma anche per l’università pubblica in sé – e far sì che i prossimi statuti siano molto più simili e “livellati verso l’alto”, dal punto di vista delle buone pratiche, di quanto non sia oggi. Adesso, infatti, abbiamo università nelle quali i ricercatori votano tutti il rettore e sono nei cda e altre in cui non votano (se non per una infima proporzione) e non sono neppure a pieno titolo nei CdF. Dovremo avere statuti in cui si stabilisce che gli esterni del CdA devono essere 3 su 11 (e non di più), e che siano eletti dall’intero corpo universitario (la legge non lo vieta). E moltissime altre cose.
Insomma: se decidiamo di non contare oggi, di non seguire strategie comuni a livello nazionale, di trovare sede per sede accordicchi sottobanco magari per sottostare al DM 17 (che invece di essere pedissequamente applicato dev’essere combattuto e superato con la forza delle idee), allora tutto quello che abbiamo fatto fino ad oggi sarà stato vano. Avremo perso di credibilità e di dignità; la nostra sconfitta sarà un pugno nello stomaco anche per molt* altr*, pure non universitari, che hanno visto in noi qualcosa di nuovo, di finalmente responsabile e non corporativo.
Invece abbiamo un’altra possibilità, che è anche una responsabilità. Ce l’abbiamo, singolarmente e personalmente, noi coordinatori della Rete29Aprile. Sta a noi trovare prestissimo una linea unitaria e immediatamente dopo ragionare con i nostri colleghi, dare loro motivazioni forti, obiettivi definiti e percorsi credibili. Abbiamo avuto, in questo periodo, due grandi forze: quella delle idee e quella della condivisione su una scala più vasta di quella locale. Questa non è la “nostra” riforma: chi l’ha voluta, o non l’ha contrastata, adesso ci faccia vedere come fa a farla funzionare, mentre noi facciamo il nostro – bellissimo – lavoro. E mentre continuiamo a fare tutto quello che è in nostro potere per far passare l’idea che l’Università statale non è un’istituzione da rottamare e regalare ai primi caimani che passano, ma un luogo fondamentale e irrinunciabile di elaborazione e diffusione delle idee, una risorsa per lo sviluppo e un fondamento per la democrazia, una spina nel fianco per chi vede come il fumo negli occhi la cultura, il libero pensiero e una autonoma capacità di comprensione.
Non sono un italianista, ma mi piace pensare che, mai come questa volta, con-vincere possa significare… vincere assieme.
un abbraccio,
massimiliano
Vi inoltro l'estratto di una bellissima lettera di Massimiliano Tabusi (rete 29 aprile, il ricercatore ricevuto da Napolitano, insieme agli studenti, qualche settimana fa) su temi e questioni su cui dovremmo riflettere urgentemente tutt* insieme prima possibile......
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Non abbiamo altra scelta che individuare i percorsi in queste ore. Moltissimi presidi bussano già il 10 alle porte, nostre e, ancor più importante, di migliaia di colleghe e colleghi che non hanno la nostra assiduità con questi temi ed attendono da noi una linea.
Questo è uno dei punti importanti. Ci sono moltissim* che ci sono stati a guardare e che vogliono sapere oggi cosa proponiamo. Ragionare in termini “ora sento i colleghi cosa vogliono fare e poi ne parliamo” è semplicemente un non senso. Dobbiamo essere noi a fare proposte, spiegarne gli obiettivi e le motivazioni con tutta la capacità di cui disponiamo e poi registrare se queste proposte hanno seguito oppure no.
Dove siamo
E’ già stato detto ma mi piace ripeterlo: se il signor Scilipoti e il signor Calearo non avessero cambiato casacca per quattro soldi o per qualche poltrona, oggi il ddl Gelmini sarebbe una cosa dimenticata. E il merito sarebbe stato tutto nostro, per aver tenuto duro e aver creato un fronte compatto, su dei contenuti, con studenti e anche altre con altre componenti che si stanno maggiormente strutturando (penso a cpu e conpass).
Il DDL è invece passato di corsa, zoppo, con degli errori e delle “criticità”. Tutta l’Italia lo sa e ne ha sentito parlare, ancora una volta per merito dello schieramento di cui sopra, che ha ottenuto una (minima ma importante) sponda dal presidente della Repubblica, che presto sarà impegnato in un difficile passaggio di scioglimento delle camere sì/no e non ha voluto essere preventivamente oggetto di attacco in quanto “comunista” non firmando il DDL. Questione di scelte, di priorità. Qualcuno dirà di coraggio, lo so.
Dove andiamo
Il DDL è uno spot pre-elettorale del governo attuale, che si vanterà tra marzo e maggio (periodo di probabile voto) del grande risultato raggiunto. Però le università non funzioneranno in quel periodo se non saremo noi a tenerle in piedi. Volontariamente e contro i nostri interessi. Sì, perché anche con la legge vigente, chi fa lezione è il principale avversario di sé stesso: copre un posto di associato e le Università non ci penseranno neppure lontanamente a bandirlo (per chi fosse interessato: diventare associati con questa legge non darà una lira di più, né peso politico alcuno negli atenei, ma solo maggiori obblighi. Questa è un’altra storia, sulla quale, però, presto o tardi occorrerà tornare), neppure ci fossero soldi – e non ci sono.
Si dice che siamo in grave difficoltà perché, se non li teniamo noi, molti “nostri” corsi potrebbero chiudere, causa DM 17. Ecco, questo dà l’occasione di entrare veramente nel problema. Occorre assolutamente intendersi sul momento in cui ci troviamo. È uno spartiacque: noi possiamo essere convinti che:
A) Attualmente l’Università ha qualche difficoltà perché ci sono normative bislacche alle quali è un po’ difficile adattarsi; niente che non sia successo in passato, comunque volendo un adattamento si trova, stiracchiando e spingendo qua e là.
B) L’Università come servizio pubblico (e come tanti altre componenti dell’idea stessa di “pubblico”) è sotto un attacco senza precedenti, ed è assediata da un complesso di normative che tendono ad escludere una larga parte della popolazione tanto dalla possibilità di ottenere una formazione superiore a costi ragionevoli, quanto dalla possibilità di svolgere una “missione” di ricerca e docenza, a meno che non si sia già appartenenti ad uno strato sociale assai benestante. Non so voi, ma io non avrei mai potuto fare questo mestiere, che adoro, se invece di avere una borsa di dottorato – misera, d’accordo – avessi dovuto pagare io per tre anni, come avviene con questa legge. Questo è un chiaro filtro che “smista” preventivamente i possibili docenti universitari.
La nostra reazione dipende dalla nostra percezione. Se è di tipo A), allora facciamo benissimo a tornare ad insegnare, risolvendo così ogni problema concreto dapprima ai nostri presidi, i quali pensano mediamente solo al personale quieto vivere e ad applicare – spesso ancor prima che siano in vigore – qualsiasi capriccio del ministro di turno. Gente che, se domani arrivasse un DM 18 nel quale si dice che, per risparmiare, non potranno iscriversi ai corsi quelli che hanno un numero di piede superiore al 40, un secondo dopo starebbe lì a farci la predica su quanto sia necessario garantire il diritto allo studio di chi porta 39, 38, 37 o 36. Io, personalmente, credo che queste persone siano state e siano ancora la rovina dell’Università, perché non hanno mai usato il loro intelletto (e sì che alcun* si definiscono intellettuali!) per ragionare criticamente delle cose che loro stess* andavano facendo.
Se è di tipo B), significa che noi, per circostanze legate ai fatti della storia, siamo gli/le unici/uniche che abbiamo davvero l’opportunità di frapporci ad un disegno così distruttivo. Questo perché, semplicemente, ci basta rispettare la legge per mettere in crisi il sistema, per mostrare che “il re è nudo”, che ciò che stanno costruendo non funziona minimamente, se non perpetuando un sistema di ricatto e di sfruttamento, sempre più grave. C’è un unico modo in cui può funzionare: sulle nostre spalle. Se siamo convinti del tipo B), prestarsi a questo gioco significa rendersi consapevolmente complici di un disegno che comporterà un cambiamento feroce della intera società italiana da qui a qualche anno. Lo ha detto il ministro stesso, dopo l’approvazione: “così finisce il finto egualitarismo post sessantottino”. Studierà chi ha i soldi; insegnerà chi potrà permettersi di pagare per lavorare (il dottorato come pre-investimento) e di fare almeno otto anni di precariato subito dopo. Ovvero, insegneranno nelle nostre università i figli idioti dei più facoltosi. Perché a quelli intelligenti gli farebbero certamente fare altro, più redditizio. Pensate per un momento a che effetto sociale può comportare, nei prossimi decenni, avere insegnanti così nelle nostre università…
Se la nostra percezione è di tipo B), non possiamo intanto che trarne una prima conclusione: dobbiamo ribadire con forza la nostra indisponibilità, e convincere i colleghi che è una cosa importantissima. Che si può fare oggi o non si potrà fare mai più. Che, per il lavoro fatto in questi mesi da tutti noi, oggi se si dice che si è ricercatori/trici ad un barbiere, ad un tassista, ad un operaio, si riceve finalmente rispetto, e non il disprezzo generico dedicato agli universitari. Che l’indisponibilità è un concetto che ha fatto breccia anche in altri contesti: che essere indisponibili significa anzitutto non voler (più) assecondare comportamenti immorali e disegni distruttivi.
D’accordo sul B), ma poi?
Adesso do per scontato che siamo d’accordo sulla percezione B. Allora spunta la domanda: ormai cosa possiamo farci, visto che la legge è passata? Come dicevo la legge è passata ma già è malconcia. Avrebbe bisogno di almeno un anno e mezzo per entrare in funzione (anche se i rettori correranno, per quanto gli compete, ad approfittare subito dei vantaggio loro riservati da questo “saldo di fine stagione”). Ci sono fortissime probabilità che quest’anno si voti, prima dell’estate. Chi governa non vuole altro che uno spot. Il DM 17 è stato accelerato esattamente per questo motivo. Biecamente e solamente per avere qualche cifra sui tanti corsi tagliati, da sbandierare in campagna elettorale. Ma, attenzione: come si fa a chiudere molti corsi, mentre ci sono studenti che hanno quei corsi nel proprio curricolo? È sostenibile il DM 17? È sostenibile trasformare moltissimi corsi in numeri chiusi? È sostenibile far sparire sotto il naso dei corsi agli studenti che ce l’hanno nei piani di studio, e metterli in 5 o 600 in un’aula a seguire un corso diverso che magari non gli interessa? E con che docente? Tutto questo noi dobbiamo dirlo in modo alto e forte e attuare strategie specifiche (ci torno tra poco). Dobbiamo lavorare con gli studenti che presto saranno inferociti dal “combinato disposto” DDL Gelmini + tagli feroci ai corsi. Il DM 17, se applicato come vuole il ministro, semplicemente non è sostenibile e gli esploderà in mano. Se siamo d’accordo sulla percezione B), non possiamo pensare a prestarci all’applicazione di qualsiasi follia passi per la testa di un ministro. Su questo dobbiamo fare una battaglia dentro gli atenei, affinché a protestare siano anche presidi e rettori, e ovviamente gli studenti. Se non lo fanno, saranno corresponsabili. Non dobbiamo mollare la pressione su di loro.
Con le indisponibilità possiamo far sì che a marzo/aprile si capisca che questa legge non va bene, perché non risolve nulla e anzi blocca le università. L’università come l’Alitalia, come la monnezza napoletana, come L’Aquila. Finte soluzioni che non risolvono nulla, ma che, anzi, aggravano i problemi. Quando questa crisi si verificherà sarà chiarissimo a tutti che questa legge va superata, e che noi siamo parte della soluzione e non del problema. E avremo voce in capitolo per risolverlo, questo problema. Nessuno potrà accusarci di nulla: è appena stata fatta una legge di sistema, ed il sistema non funziona. Noi lo diciamo da mesi; abbiamo avvertito tutti, dai bidelli al presidente della Repubblica, dai giornali alla televisione. Ampiamente per tempo. E gli studenti ci hanno ripetutamente chiesto di mantenere le nostre indisponibilità. Ritirando in massa le indisponibilità, anche se si trattasse di una strategia, perderemmo faccia e dignità agli occhi degli studenti e di tutta la società. Sono valori acquisiti, e a caro prezzo. Pensiamoci bene prima di gettarli al vento.
Solo indisponibilità? E come facciamo a pesare negli atenei?
Questo è un problema importante. Vi faccio una proposta che è mia PERSONALE. Però va fatta una premessa. Le nostre azioni di protesta, a mio avviso, devono essere motivate verso l’opinione pubblica anche come effetti diretti della legge. Non vi piace quel che facciamo? Prendetevela col ministro. Dunque:
indisponibilità = sapete com’è, la legge ci mette definitivamente fuori ruolo, dunque ci impone di ottenere una abilitazione se vogliamo “salvarci”. A noi la legge pare completamente sbagliata e distruttiva (non torno sui motivi), ma ci adeguiamo e quindi non possiamo far altro che metterci da subito a fare solo ricerca in modo da avere i titoli che la riforma stessa giudica necessari per l’abilitazione. Sbagliano, ma ce lo impongono “loro”!
Sabbatico (ma attenzione, leggere fino in fondo anche il prossimo paragrafo) = pochi sanno che, per motivi di studio e ricerca, è previsto dalla normativa attuale che ricercatori e ricercatrici possano usufruire, in ragione di un anno ogni due, di un “congedo retribuito per motivi di studio e ricerca”. Ovvero sabbatico. Pochissimi, nell’opinione pubblica, sanno che fino ad ora non lo abbiamo mai sfruttato. Propongo di chiedere IN MASSA alle nostre facoltà di usufruire per il prossimo AA (2011-2012) di un anno dedicato allo studio e alla produzione scientifica. E’ – di nuovo – la legge che ce lo impone! Attenzione, se si è in sabbatico si può comunque partecipare a tutti i consigli, quindi alla vita dell’Ateneo. NON E’ UN AVENTINO!
Qualcuno dirà che il sabbatico non ci verrà concesso, perché la facoltà deve dare un parere. Possibile, ma il parere deve essere motivato. E mentre ad un associato possono dirgli di no perché è tenuto a fare lezione, a noi cosa possono dire? E’ vero o no che l’unico modo per salvarci dall’oblio per tutto il resto della nostra carriera è acquisire l’abilitazione? E’ vero o no che dipende da una legge dello stato? Ci sarebbero fisiologicamente Università che lo concedono; come fanno le altre a dire di no? Faremmo un can can nazionale che metterebbe in grave difficoltà chi volesse bloccare le nostre iniziative. Attenzione, però: la mia proposta di richiesta in massa di sabbatico ha due scopi: 1) riaccendere l’attenzione dell’opinione pubblica su un fenomeno eclatante, tornando a parlare degli errori della legge; 2) disporre di un’arma cui ci diremo da subito disposti a rinunciare se all’interno degli atenei ci daranno voce in capitolo sugli statuti e sposeranno la protesta nazionale senza rompere troppo sulle indisponibilità di quest’anno. In mancanza di un’arma del genere, cui ci diciamo disposti a rinunciare, per contare negli statuti dovremmo invece rinunciare all’indisponibilità di quest’anno, cosa che sarebbe suicida.
Altre stategie
Ci sono molte cose da fare DENTRO le Università nel prossimo futuro. Oltre agli statuti, ci saranno anche tutti i passaggi di adeguamento, per esempio per il DM 17. Non sono d’accordo sull’uscita dagli organi democratici; penso invece ad una strategia “partigiana” di “guerriglia”, combattendo punto su punto (casa per casa!) e facendo da guastatori ogni volta che si vuole imporre qualcosa che non va bene per quell’Università Libera, Pubblica e Aperta che è nel nostro stesso simbolo. Siamo in grado di far mancare il numero legale a molti consigli di corso di laurea, per esempio, ed anche nei dipartimenti, dove siamo sicuramente. Siamo in grado di portare in discussione alcuni temi nei consigli di facoltà (dove siamo tutti presenti o come rappresentanti), nei senati accademici e nei CdA. Sempre dobbiamo – a mio avviso – chiedere a tutte le componenti di agire assieme, segnalando che non stiamo lottando contro di loro o contro l’ateneo, ma a vantaggio di un sistema universitario nazionale aperto ed inclusivo. Laddove ci faranno apertamente la guerra, nonostante gli si sia proposta una alleanza per questi alti scopi, possiamo segnalare sistematicamente alla Corte dei Conti (cosa di cui le alte sfere hanno un sacro terrore) tutti gli arbitri e le spese ingiustificate che negli atenei purtroppo ci sono a iosa. Dobbiamo istituire una sorta di “osservatorio nazionale” sulle migliori pratiche statutarie possibili – per ricercatrici e ricercatori ma anche per l’università pubblica in sé – e far sì che i prossimi statuti siano molto più simili e “livellati verso l’alto”, dal punto di vista delle buone pratiche, di quanto non sia oggi. Adesso, infatti, abbiamo università nelle quali i ricercatori votano tutti il rettore e sono nei cda e altre in cui non votano (se non per una infima proporzione) e non sono neppure a pieno titolo nei CdF. Dovremo avere statuti in cui si stabilisce che gli esterni del CdA devono essere 3 su 11 (e non di più), e che siano eletti dall’intero corpo universitario (la legge non lo vieta). E moltissime altre cose.
Insomma: se decidiamo di non contare oggi, di non seguire strategie comuni a livello nazionale, di trovare sede per sede accordicchi sottobanco magari per sottostare al DM 17 (che invece di essere pedissequamente applicato dev’essere combattuto e superato con la forza delle idee), allora tutto quello che abbiamo fatto fino ad oggi sarà stato vano. Avremo perso di credibilità e di dignità; la nostra sconfitta sarà un pugno nello stomaco anche per molt* altr*, pure non universitari, che hanno visto in noi qualcosa di nuovo, di finalmente responsabile e non corporativo.
Invece abbiamo un’altra possibilità, che è anche una responsabilità. Ce l’abbiamo, singolarmente e personalmente, noi coordinatori della Rete29Aprile. Sta a noi trovare prestissimo una linea unitaria e immediatamente dopo ragionare con i nostri colleghi, dare loro motivazioni forti, obiettivi definiti e percorsi credibili. Abbiamo avuto, in questo periodo, due grandi forze: quella delle idee e quella della condivisione su una scala più vasta di quella locale. Questa non è la “nostra” riforma: chi l’ha voluta, o non l’ha contrastata, adesso ci faccia vedere come fa a farla funzionare, mentre noi facciamo il nostro – bellissimo – lavoro. E mentre continuiamo a fare tutto quello che è in nostro potere per far passare l’idea che l’Università statale non è un’istituzione da rottamare e regalare ai primi caimani che passano, ma un luogo fondamentale e irrinunciabile di elaborazione e diffusione delle idee, una risorsa per lo sviluppo e un fondamento per la democrazia, una spina nel fianco per chi vede come il fumo negli occhi la cultura, il libero pensiero e una autonoma capacità di comprensione.
Non sono un italianista, ma mi piace pensare che, mai come questa volta, con-vincere possa significare… vincere assieme.
un abbraccio,
massimiliano